Piste&Pistoni – La 24 ore di Le Mans

Come molti di voi sapranno, chi scrive è un grande fan di Federico Buffa. Su YouTube è possibile trovare molti suoi racconti e interviste ma, con cadenza più o meno regolare, la mannaia del copyright si abbatte su questi video causandone la rimozione. In uno di questi video non più reperibili, Buffa risponde a una domanda molto interessante: come mai negli USA (e, in generale, nel mondo anglosassone), l’epica sportiva è vissuta in maniera molto più seria che in Italia? Detta in altri termini: se uno avesse voglia di cercare un film a tema sportivo, troverebbe tante produzioni di qualità nell’universo hollywoodiano. C’è un bel film praticamente per ogni sport. Così, su due piedi: basket? He got game. Football? Quella sporca ultima meta. Hockey? Miracle. Tennis? Borg McEnroe. Potrei andare avanti ancora per molto ma, se pensate, invece, ai film di produzione italiana, la situazione è molto diversa. Qual è lo sport più famoso in Italia? Sicuramente il calcio. Qual è il primo film italiano di calcio che vi viene in mente? Probabilmente L’allenatore nel pallone.

Ora, non dico che non vi possa piacere, però mi permetto di asserire che difficilmente lo mettereste insieme ai film citati in precedenza. Questo perché, secondo Buffa, gli USA non hanno molte altre storie da cui attingere per la loro narrazione epica. Sono una nazione relativamente giovane ed è piuttosto difficile raccontare la storia della loro formazione senza menzionare quello che, de facto, è stato un genocidio ai danni della popolazione nativa. Ci sarebbero le lotte per i diritti civili, ma riescono ad appassionare un numero sfortunatamente ristretto di cittadini americani (e ad alienarne più o meno altrettanti, oserei dire). Ci sarebbe la guerra di Secessione, per cui vale lo stesso discorso di cui sopra. Tutte le guerre a cui hanno partecipato gli USA si sono combattute al di fuori dei confini nazionali e, spesso, sono state guerre di invasione contro stati sovrani che non rappresentavano una diretta minaccia alla sicurezza nazionale. Di tutti i film che hanno fatto sulla guerra in Vietnam, praticamente nessuno può essere considerato una narrazione “epica” come nel senso di questo post. In generale, si tratterebbe di storie difficili da narrare con onestà intellettuale senza generare una profonda riflessione critica sulla c.d. American way of life. In questo modo, rimane solo lo sport a cui attingere e, una volta che ha preso piede l’epica sportiva, ci si può spingere anche oltre i confini nazionali. Nel mio elenco di film, infatti, ho volutamente escluso Rush perché, a differenza di quelli menzionati, si occupa di uno sport poco seguito negli USA ed è praticamente privo di lochescion e protagonisti americani. In questo filone, può rientrare anche un film del 1971 con protagonista Steve McQueen e ambientato in quella che è una delle corse automobilistica più famose del mondo ma di cui, forse, non a tutti è noto come funziona e perché.

Tutti hanno sentito parlare della 24 Ore di Le Mans (LM d’ora in poi), anche chi non si interessa di automobilismo. Ma cos’è, esattamente, questa corsa? La prima edizione della LM risale a quasi un secolo fa, a cavallo tra il 26 e il 27 maggio del 1923. All’epoca, il formato dominante delle corse automobilistiche era il Gran Premio, largamente maggioritario anche oggi: il primo che riesce a completare un numero prestabilito di giri intorno a un circuito vince la gara. Questo numero era (ed è, anche se da qualche anno in Formula 1 questo discorso non vale più come prima) calcolato in maniera tale da far sì che, per vincere, bisognava cercare di essere la combinazione pilota-macchina più veloce possibile. La LM, invece, propose un formato diverso: si continua a girare in tondo per un circuito ma il vincitore è colui che, in 24 ore esatte, è capace di percorrere la distanza maggiore. In questo caso, quindi, c’è un intervallo temporale fisso e, rispetto ai Gran Premi, è dilatato in maniera tale da rendere essenziale non solo la velocità, ma anche l’affidabilità meccanica. Ricordate quel famoso assioma attribuito a Enzo Ferrari, “la macchina da corsa perfetta è quella che si rompe appena dopo il traguardo”? Ecco, il problema principale nella LM, è, anzitutto, arrivarci, al traguardo. Dato l’ambiente in cui si corre, infatti, raggiungere questo obiettivo è tutt’altro che scontato.

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Partiamo, appunto, dal circuito. Si trova nella periferia meridionale della città di Le Mans, circa 230 Km a sud-ovest di Parigi, nella regione della Sarthe. Il percorso che si utilizza per la 24 ore è molto cambiato nel corso degli anni: oggi è semi-permanente, ovvero è composto in parte da un vero circuito (intitolato a Ettore Bugatti, rital fondatore dell’omonima casa automobilistica) a uso esclusivamente sportivo (e utilizzato per altri campionati a Gran Premio come il Motomondiale) e in parte da strade che, normalmente, sono aperte al traffico. Fino al 1965, però, il circuito Bugatti non esisteva e la gara si correva unicamente per strade cittadine. Tra queste, c’è la famigerata Ligne Droite des Hunaudières, impropriamente chiamata (soprattutto nel mondo anglosassone) “rettilineo Mulsanne”: 6 km senza nulla che assomigli vagamente a una curva, da percorrere flat out, a tavoletta. La Porsche 917 a “coda lunga”, nel 1971, in fondo a questo rettilineo raggiunse i 362 km/h.

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Dopo un periodo di limitazioni alla potenza, l’avvento dei turbo liberò nuovamente i cavalli e, nel 1978, un’altra Porsche, la 935, raggiunse i 368 Km/h. Roger Dorchy, nel 1988, al volante di una Welter-Menuier P88 motorizzata Peugeot, stabilì il record attualmente vigente di 407 Km/h, anche se, va detto, l’auto era stata costruita appositamente per sfondare il muro dei 400 Km/h e, infatti, non terminò la corsa.

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Ovviamente, a fine rettilineo, dopo una leggerissima curva a destra (la Mulsanne kink), c’è un piccolo dosso e una curva sufficientemente stretta da poter essere classificata come tornante. Tutte queste caratteristiche contribuiscono a esercitare un notevole sforzo su gomme, freni e sospensioni, oltre a bruciare un sacco di carburante e amplificare l’importanza dell’aerodinamica. Come menzionato in precedenza, inoltre, il rettilineo Hunaudières è una strada pubblica, quindi l’asfalto non è mantenuto in maniera meticolosa come in un circuito da Gran Premio e presenta spesso imperfezioni (quando non addirittura buche), contribuendo ulteriormente all’usura delle parti meccaniche. A complicare ulteriormente le cose ci sono una serie di regole utilizzate unicamente per la LM. Una di queste regole (ora non più in vigore) sanciva che, durante la prima ora di corsa, le auto non potessero essere rifornite di alcun fluido che non fosse benzina (quindi no olio, no refrigerante ecc…), pena la squalifica. È ancora vigente, invece, la regola secondo cui, durante il rifornimento di carburante, le auto devono spegnere il motore. Questa non è solo una misura di sicurezza, ma un’altro test di resistenza: normalmente, infatti, le auto sportive sono costruite per essere accese all’inizio della gara e spente alla fine. Lo spegnimento e la riaccensione durante la gara non sono previste tranne che in casi di emergenza e rendere questa eccezione una costante rappresenta un’ulteriore sfida per i progettisti, anche se, con l’avvento delle auto ibride, questo ostacolo è stato in parte aggirato. Infine, sempre durante i rifornimenti, i meccanici non potevano intervenire sull’auto (se non per aiutare il pilota a uscire dall’abitacolo): questo significava dover programmare una sosta per il rifornimento e una per il cambio gomme ed eventuali operazioni di manutenzione. Il fatto che abbia usato l’imperfetto dovrebbe suggerirvi che anche questa regola è stata modificata: infatti, l’ultima LM (giugno 2018) è stata la prima in cui ai partecipanti è stato concesso rifornire e cambiare le gomme contemporaneamente per andare incontro alle esigenze dei telespettatori.

Come accennato in precedenza, non vince la LM chi taglia per primo il traguardo, ma chi, allo scadere della 24a ora, ha percorso più strada. Questa regola ha generato qualche problema, come nell’edizione del 1966. In quell’occasione, le due Ford GT40 (di cui parleremo ampiamente in un post successivo) guidate da Ken Miles e Bruce McLaren (sì, colui che fonderà quella McLaren) stavano dominando la gara; inoltre, al terzo posto si trovava un’altra GT40, di un team privato, con 12 giri di ritardo dalla coppia di testa. La Ford, per celebrare adeguatamente la sua prima vittoria a LM, chiese a Miles, in testa, di rallentare in modo da arrivare con McLaren e la GT40 privata subito dietro e poter scattare una foto alla “parata” delle tre auto. Problema: McLaren aveva iniziato la gara da una posizione molto più arretrata rispetto a Miles e, per la regola della distanza totale, si trovò a soffiare la vittoria a Miles! Come se non bastasse, Miles aveva vinto le due gare precedenti del campionato durata (Sebring e Daytona) e, se avesse vinto anche a LM, sarebbe stato non solo il primo pilota a vincere la Triple Crown of Endurance, ma anche il primo ad aver ottenuto questa “tripletta” nello stesso anno. In realtà, quella appena esposta è la “versione ufficiale”: McLaren, infatti, in un’intervista lasciò intendere che lui fosse perfettamente a conoscenza della situazione e che, in prossimità del traguardo, accelerò per guadagnare il minimo indispensabile per conquistare la vittoria. Inoltre, anche la Ford non vedeva di buon occhio che Miles, americano come loro, “rubasse” la scena mediatica alla casa di Detroit dopo tutti gli investimenti fatti per vincere la LM. Sfortunatamente, Ken non avrà più modo di tentare un altro assalto alla tripletta sopracitata: pochi mesi dopo, infatti, morirà in un brutale incidente a Riverside, California meridionale, durante un collaudo di quella che avrebbe dovuto essere l’erede della macchina campionessa in carica. Se non altro, la sua morte servirà a evitarne un’altra: nella LM del 1967, infatti, Mario Andretti, alla guida dell’auto che stava sviluppando Miles, ebbe un pauroso incidente a 240 km/h ma ne uscì fondamentalmente illeso grazie al roll-bar in acciaio montato sull’auto proprio a seguito dell’incidente di Riverside.

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Ci fu però una forma di giustizia in questa vittoria “particolare”: McLaren aveva guidato nella parte finale della corsa, ma durante le 24 ore si era alternato con il suo co-pilota, Chris Amon.

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Ecco, Chris Amon da Bulls, Nuova Zelanda, è una figura quasi mitologica. Di lui, Mauro Forghieri, per decenni direttore tecnico della Scuderia Ferrari, disse: “è nettamente il miglior pilota con cui abbia lavorato. Aveva tutte le carte in regola per diventare Campione del Mondo, è solo stato sfortunato”. Ecco, Forghieri ha lavorato con, tra gli altri, John Surtees, Mario Andretti, Niki Lauda, Gilles Villeneuve, Jody Scheckter e Michele Alboreto: tutti pluri-vincitori di Gran Premi, alcuni (pluri) Campioni del Mondo. Amon, invece, alla voce “vittorie in Formula 1” riporta uno zero tondo tondo. Come si spiega questa cosa? La chiave è nell’aggettivo usato da Forghieri, “sfortunato”, che, per Amon, è un clamoroso eufemismo. Rendono meglio l’idea le parole espresse da Andretti per lui: “se andasse a fare il becchino, la gente smetterebbe di morire”. Ingaggiato dalla Ferrari proprio dopo la sua vittoria a LM, nel 1968 si ritirò per ben 5 volte mentre era in testa alla corsa, tutte per problemi meccanici. Memorabile il GP del Canada in cui, dopo aver dominato la corsa nonostante una frizione mal funzionante, dovette ritirarsi per la rottura della trasmissione e scoppiò quasi a piangere mentre Jacky Ickx, suo compagno di squadra, tentava di consolarlo. L’anno successivo, il V12 Ferrari montato sull’auto da Formula 1 si dimostrò potente ma inaffidabile, cosicché, a metà stagione, Amon lasciò il team. Inutile dire che il nuovo 12 cilindri in linea diventerà il miglior motore della Formula 1 degli anni ’70, anche se dovrà aspettare fino al 1975 per conquistare il Mondiale con Lauda. Con la sua nuova scuderia, la neonata March che montava l’agognato motore Ford Cosworth, nel GP del Belgio, a SPA, fece registrare il giro record per velocità media (244,7 km/h): il tracciato, nel corso degli anni, è stato profondamente modificato, ma, a oggi, nessuno è mai riuscito a battere questo primato. Ciononostante, in quella stagione e nelle successive, venne “derubato” della vittoria innumerevoli volte. Va citato il caso di Monza nel 1971: dopo aver “umiliato” la Ferrari facendo registrare, nel loro GP di casa, il giro più veloce della storia della Formula 1 (252 Km/h di media, si correva senza le 3 chicane attualmente presenti), si trovò comodamente in testa alla gara, quando provò a strappare uno degli strati che coprono la visiera del casco. Risultato? Venne via l’intera visiera. Amon dovette quindi rallentare significativamente per riuscire a tenere gli occhi aperti e finì sesto. Chiuderà la sua carriera in Formula 1 con 11 podi e 83 punti iridati in 96 corse. Morirà di cancro nell’agosto del 2016, a 73 anni, dopo essere stato, tra le tante cose, l’allenatore personale di Brendon Hartley, suo connazionale, vincitore della LM nel 2017, pilota della Toro Rosso nel 2018 e attuale test and simulator driver (collaudatore, in soldoni) della Scuderia Ferrari.

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Facciamo un passo indietro. Abbiamo parlato di come, nel 1966, McLaren e Amon vinsero la LM perché in Ford non tennero conto della loro posizione di partenza. Ok, ma come funziona(va) la partenza a LM? Anche in questo caso, in maniera diversa da qualsiasi altra gara. Le auto, infatti, venivano disposte nella corsia dei box (che, per lungo tempo, non era fisicamente separata dal resto del circuito: si interveniva sulle auto praticamente accostate a bordo pista!) parcheggiate a lisca di pesce, ovviamente con il muso rivolto verso la pista. Originariamente e fino al 1962, le auto erano schierate in ordine di potenza, mentre dal 1963 la posizione in griglia venne determinata da una sessione di qualifica. La vera peculiarità di quella che divenne famosa come “partenza Le Mans” era però un’altra: i piloti partivano fuori dalle loro auto, dall’altra parte della corsia, schierati come alla partenza dei 100 metri alle Olimpiadi. Allo start, questi correvano verso la loro macchina, entravano, la accendevano e iniziavano la corsa. Non so se avete mai avuto la fortuna di guidare o di salire su una Porsche. In caso positivo, avrete sicuramente notato come, nelle auto di Stoccarda, la chiave di accensione vada inserita alla sinistra del guidatore invece che a destra come in tutte le altre macchine. Questa tradizione trova origine proprio nella LM: la Porsche, infatti, introdusse questa innovazione proprio per permettere al pilota di accendere la macchina con la mano sinistra e ingranare la marcia con la destra. La casa di Stoccarda deve molto della sua popolarità alla LM e, a oggi, è la casa automobilistica con più vittorie in questa gara (19). Noterete, inoltre, che, nell’elencare le azioni dei piloti alla partenza, non ho menzionato “allacciarsi le cinture”. Questo perché, soprattutto negli anni ’60, pur di risparmiare qualche secondo (su una gara che dura 24 ore…), alcuni piloti iniziarono a saltare a piedi pari questo passaggio o, meglio, a rimandarlo, correndo quindi i primi giri senza cinture di sicurezza. Questa usanza venne messa in ridicolo da Jacky Ickx nell’edizione del 1969: alla partenza, invece di scattare verso la macchina, il pilota belga si fece una bella passeggiata attraverso la corsia, rischiando persino di venire investito da chi, correndo, aveva già messo in moto la sua auto. Una volta salito in macchina, si allacciò le cinture con tutta calma e, finalmente, partì. John Woolfe, invece, decise di non seguire il suo esempio e, durante il primo giro, ebbe un incidente e morì: se si fosse allacciato le cinture, sarebbe probabilmente sopravvissuto. Per la cronaca, quell’anno Ickx vinse agilmente la prima delle sue 6 LM, meglio di lui solo il danese Tom Kristensen.

L’anno successivo, probabilmente anche per la “bravata” di Ickx, la procedura di partenza venne modificata: si partiva sempre dai box, ma con i piloti dentro l’auto e con le cinture di sicurezza allacciate. Questa procedura durò solo un anno: dal 1971 a oggi, infatti, si usa la rolling start, la partenza lanciata, in cui si effettua un giro di ricognizione mantenendo le posizioni dietro a una pace car, poi questa entra ai box e la gara ha inizio.

Oltre alla menzionata accensione a sinistra nelle Porsche, la LM ha esportato fuori dalla Sarthe anche altre usanze sopravvissute fino ai giorni nostri. Se vi è capitato di vedere un GP di Formula 1 fino alla fine (cosa non scontata, purtroppo, di questi tempi), potreste aver notato che, nel giro d’onore che si percorre tra lo sventolio della bandiera a scacchi e il rientro delle vetture ai box, i commissari di pista salutano il vincitore e gli altri piloti sventolando tutte quelle bandiere che, normalmente, servono a segnalare situazioni particolari. Beh, questa tradizione viene dalla LM. Come dite? Non avete mai notato nulla del genere? Ok, forse questa usanza non è così famosa tra i non appassionati, ma vi sfido a non riconoscere la prossima. Torniamo alle famose LM di fine anni ’60, più precisamente a quella del 1967. Dan Gurney vince la gara, seconda vittoria consecutiva per la Ford GT-40 e prima di sempre per una squadra composta da auto, motore e piloti statunitensi. Sale sul podio e, come da tradizione, gli viene consegnata la magnum di champagne riservata al vincitore. Gurney guarda sotto il podio e vede Henry Ford, il capo della baracca, Carroll Shelby, il proprietario del team, le rispettive mogli e una serie di giornalisti che avevano messo in dubbio la scelta della casa di Detroit di accoppiarlo con A.J. Foyt, suo grande rivale nelle competizioni statunitensi. Si era ben lontani dai giorni nostri, in cui si fanno passare per spontanee quelle che, in realtà, sono mosse commerciali studiate a tavolino per diventare virali. Si vedano, per esempio, il selfie di Totti dopo il suo gol nel derby del 2015 o quello di Ellen DeGeneres con i vincitori degli Oscar l’anno precedente. Dico questo non per fare il solito nostalgico che rimpiange “i bei tempi andati”, ma per dire che sulla spontaneità del gesto di Gurney non c’è alcun dubbio. Il pilota americano, infatti, per festeggiare la vittoria, fa una cosa che nessun pilota aveva mai fatto prima d’ora: stappa la bottiglia, la agita e fa una doccia di champagne agli astanti sotto il podio. Non avrebbe mai potuto sapere che la sua esultanza si sarebbe tramutata in una delle tradizioni più longeve del motorsport.

Come menzionato in precedenza, oggi la LM si corre in un circuito molto diverso non solo da quello originale, ma anche da quello “ibridato” con il Bugatti. Nel 1987, infatti, venne aggiunta una chicane alla curva Dunlop che, in precedenza, veniva affrontata a quasi 300 km/h di velocità. Inoltre, nel 1990, la FIA promulgò una regola ad hoc in cui stabiliva che non poteva essere omologata nessuna corsa disputatasi su circuiti che avessero un rettilineo superiore ai 2 km: il rettilineo Hunaudières venne dunque “spezzettato” in 3 parti da due chicanes. Ovviamente, la ragione di queste modifiche non era quella di preservare a imperitura memoria il record di Dorchy, ma per impedire incidenti mortali dovuti alle folli velocità potenzialmente raggiungibili in quel tratto. La Nera Mietitrice, infatti, è stata una delle spettatrici più assidue della LM, soprattutto agli inizi. Del resto, non ci si poteva aspettare nulla di diverso: correre a quelle velocità con mezzi pesantemente usurati su strade ben lontane dalla perfezione e, soprattutto, con misure di sicurezza molto arretrate rispetto a quelle odierne non può che causare un significativo numero di vittime. Fortunatamente, negli ultimi 40 anni ce ne sono state “solo” 4, l’ultima delle quali nel 2013. L’uso dell’avverbio è motivato dal fatto che la LM è stata teatro di quello che è, probabilmente, il peggior incidente nella storia dell’automobilismo.

È l’11 giugno 1955. Le 3 precedenti edizioni della LM hanno visto trionfare 3 case diverse: Mercedes, Jaguar e, l’anno prima, Ferrari, tutte determinate a battere i loro rivali. La casa di Maranello, con la 121 LM, punta tutto sulla velocità e sul suo già leggendario motore. Gli inglesi, invece, hanno reclutato dei piloti di grande esperienza come Mike Hawthorn (che, l’anno prima, aveva corso il Mondiale F1 proprio con la Ferrari e che, 3 anni dopo, sempre sulla Rossa, diventerà il primo campione del mondo inglese della storia) e hanno equipaggiato la loro D-Type con i neonati freni a disco. La casa di Stoccarda (sì, Mercedes e Porsche sono conterranee), infine, ha montato sulla sua 300 SLR un telaio innovativo fatto di Elektron, una lega di magnesio molto leggera, e ha affidato la sua auto principale a due leggende come il campione del mondo F1 in carica, Juan Manuel Fangio, e Stirling Moss. La gara si disputa su un tracciato fondamentalmente inalterato rispetto a quello originale: peccato che, nel 1923, le auto  arrivassero a stento ai 100 km/h mentre, 32 anni dopo, la velocità massima è quasi triplicata. Come ricorderete, all’epoca non c’era alcuna separazione tra il circuito e la corsia box mentre solo una barriera di terra larga meno di un metro e mezzo separava la pista dalle tribune. Le auto, inoltre, erano prive di cinture di sicurezza: i piloti, infatti, sostenevano che, in caso di incidente, era preferibile venire scagliati fuori dalla vettura piuttosto che rimanere intrappolati dentro un mezzo in fiamme. La gara inizia perfettamente in orario, alle 4 del pomeriggio. Al 34° giro, la Jaguar di Hawthorn è al comando, seguita dalla Mercedes di Fangio. I due piloti stanno facendo registrare giri record su giri record e sono determinatissimi a conquistare la vittoria. Hawthorn dirà che, inizialmente, si sentiva impotente di fronte alla competitività della Mercedes, “poi mi sono ripreso e ho pensato, che diamine, perché mai una macchina inglese dovrebbe essere battuta da una tedesca?”. La squadra inglese richiama il leader della corsa per il primo pit stop. Poco prima di arrivare in prossimità dei box, Hawthorn si trova davanti la Austin Healey di Lance Macklin, un doppiato, che si sposta a destra per farlo passare. Non avendo frecce o altri dispositivi di segnalazione, all’epoca si alzava la mano per segnalare l’ingresso ai box e Hawthorn rispetta la regola. Il pilota inglese, però, per perdere meno tempo possibile da Fangio, sfrutta la maggior forza frenante della sua Jaguar per inchiodare all’ultimo minuto (non essendoci una vera pit lane, non c’era neanche una corsia di decelerazione). Macklin, colto di sorpresa, inchioda anche lui, ma prima sbanda a destra finendo contro le barriere, poi il rimbalzo e l’effetto pendolo portano la sua auto verso il centro della pista, dove sta arrivando, a oltre 200 km/h, l’altra Mercedes guidata da Pierre Levegh, anche lui doppiato ma determinato a fare un altro giro davanti a Fangio. Il francese non può fare nulla se non alzare la mano per segnalare il pericolo al compagno di squadra, dietro di lui. L’argentino chiude gli occhi d’istinto ma, grazie ai suoi riflessi e a una buona dose di fortuna, riesce a evitare l’incidente, causando solo un graffio all’auto di Hawthorn, ferma ai box. Levegh, invece, colpisce Macklin e viene lanciato in aria con la sua auto: non avendo cinture, vola per terra a testa in giù e batte violentemente la testa. Forse neanche i caschi odierni gli avrebbero salvato la vita. La sua Mercedes, invece, finisce sulla barriera di terra tra circuito e tribune, rimbalza e finisce contro una tromba delle scale in cemento. Le parti più pesanti dell’auto, come il motore, volano tra gli spettatori per quasi 100 metri, abbattendo tutto quello che trovano nel loro percorso. Il cofano finisce anch’esso tra le tribune, trasformandosi in una vera e propria ghigliottina volante. Duncan Hamilton, ai box ad aspettare il suo turno sulla seconda Jaguar, dirà che “c’erano morti e morenti ovunque, le urla di dolore e di angoscia riempivano l’aria. Era come essere in un incubo, l’orrore era tale che ti impediva anche solo di pensare”. Come se non bastasse, il serbatoio della Mercedes di Levegh esplode e il calore dell’incendio oltrepassa la temperatura di autocombustione dell’Elektron, più bassa delle altre leghe metalliche a causa dell’alta percentuale di magnesio. Anche una pioggia di fuoco, dunque, si abbatte sulle tribune e durerà a lungo, visto che le squadre di sicurezza non erano assolutamente preparate per una situazione del genere, men che meno istruite sul fatto che, se il magnesio brucia, gettarci sopra dell’acqua non fa che peggiorare ulteriormente la situazione. L’auto di Macklin, infine, pesantemente danneggiata e incontrollabile, finisce nella pseudo-pit lane, sfiorando due auto che si stavano rifornendo ma travolgendo 4 persone (non moriranno ma riporteranno gravi lesioni); il pilota, invece, ne uscirà illeso.

Le vittime saranno oltre 80 e le stime sui feriti oscilleranno tra i 120 e i 178. A seguito di questa tragedia, molte nazioni vieteranno ogni tipo di competizione motoristica sui loro territori, in attesa che i circuiti vengano messi in sicurezza. Se non avete mai sentito parlare di “Gran Premio di Svizzera” è perché, nella confederazione elvetica, questo divieto è tuttora in vigore; solo nel 2015 è stata approvata una deroga parziale per le competizioni riservate a veicoli elettrici come la Formula E. Le indagini ufficiali attribuiranno la colpa di questa carneficina a uno sfortunato incidente di gara (oltre, ovviamente, alla sicurezza del tracciato), ma alcuni piloti accuseranno Hawthorn di aver commesso una manovra troppo azzardata. Ironicamente, il pilota inglese morirà 4 anni più tardi in un incidente stradale proprio mentre, al volante di una Jaguar, stava sorpassando una Mercedes sull’autostrada per Londra.

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Oggi, tutti conoscono la 24 ore di Le Mans, anche solo per sentito dire. È una delle corse automobilistiche più famose al mondo e, infatti, è uno dei 3 gioielli da incastonare sulla Triple Crown of Motorsport. Che cos’è? È presto detto (si fa per dire). Si potrebbe fare un post intero dedicato alla simbologia del numero 3, quello che importa a noi è che, nello sport, ricorre spesso l’idea della “tripletta” come massimo traguardo a cui aspirare. Parlo per esempio di quello che, nel calcio, nel basket, nella pallavolo ecc…, viene chiamato triplete o treble, a seconda della vostra lingua preferita da cui attingere. Nel motorsport, la cosa si fa un po’ più complicata. Infatti, negli sport precedentemente citati, una squadra partecipa a più competizioni (campionato, coppa nazionale, coppa continentale…) ma, nelle medesime, pratica sempre lo stesso identico sport. Nel motorsport, invece, è estremamente raro che un pilota partecipi (per un numero di gare tale da poter ambire alla vittoria finale) a più di una competizione nello stesso anno. Di conseguenza, per trasportare il concetto di “tripletta” tra i motori, ci si è inventati questo simbolico achievement che consiste nel conquistare, nell’arco di una carriera, almeno una vittoria in quelle che sono considerate le 3 gare più famose del mondo. Una è, appunto, la LM. Le altre 2 sono il Gran Premio di Montecarlo di Formula 1 e la 500 miglia di Indianapolis. Stiamo parlando di 3 competizioni molto diverse fra di loro: una gara di durata, un GP disputato su un tortuoso percorso cittadino e 200 giri da fare su un percorso ovale. Sebbene le ultime 2 si assomiglino un po’ più tra di loro, le differenze rimangono comunque tali da rendere difficile, per un pilota di F1, adattarsi alla competizione sugli ovali e viceversa. Aggiungiamo, infine, che molti top drivers che potrebbero ambire alla Triple Crown puntano invece ad avere una lunga e vincente carriera in una singola competizione, sia essa la F1, la IndyCar o il WECC (il Mondiale di Durata di cui fa parte la LM). Insomma, quanti piloti sono riusciti a mettersi in testa questa corona? Solo 19 hanno preso parte almeno una volta nella loro carriera a tutte e 3 le gare, riuscendo a vincerne almeno una. 13 di questi ne hanno vinte 2. Solo uno è riuscito a vincerle tutte e 3. Il suo nome è Graham Hill.

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La sua storia, ovviamente, è più unica che rara. Anzitutto, in un’epoca in cui Max Verstappen ha potuto esordire in F1 a 17 anni, fa strano pensare che un pilota professionista come Hill abbia preso la patente a ben 24 anni. A 26 anni si sposa ma, avendo speso tutti i suoi soldi per finanziare la sua carriera da pilota, è la moglie a pagare per il matrimonio. A 29 anni fa il suo esordio in F1 con la Lotus. Come meccanico. Riesce a convincere la scuderia inglese a farlo gareggiare e, nello stesso anno, corre proprio a Montecarlo il suo primo GP, ritirandosi per un guasto all’albero di trasmissione. 2 anni dopo, passa alla BRM. Altri 2 anni dopo vince il Mondiale. Nei 3 anni successivi non riesce a riconquistare l’iride, ma vince tutte e 3 le volte il GP di Montecarlo. Nel 1966 corre a Indianapolis su una Lola motorizzata Ford e vince la gara. Nel 1967 torna alla Lotus con cui, l’anno dopo, a 39 anni, bissa il Mondiale. 2 anni dopo, a Watkins Glen, si rompe entrambe le gambe in un incidente. Anche in quell’occasione, com’era uso fare, gli viene chiesto se voleva mandare un messaggio a sua moglie. Anche in quell’occasione, come dopo ogni incidente, Hill dà la stessa risposta: “ditele solo che non riuscirò a ballare per 2 settimane”. Da buon inglese, infatti, aveva un sense of humor molto particolare: oltre a girare per il paddock a fare battute e regalare aforismi ai colleghi, durante l’infortunio scrive la sua autobiografia, “Una vita al limite”, descritta da Wikipedia come “notably frank and witty”. Addirittura i Monty Python si scomodano per lui: nel loro sketch Historical Impressions, in cui personaggi storici imitano personaggi contemporanei, la testa mozzata di San Giovanni Battista si esibisce proprio nell’imitazione di Hill.

Hill corre la LM del 1972 su una Matra, vincendola e completando quindi la Triple Crown. L’anno dopo, fonda la sua scuderia di F1, la Embassy Hill, dove correrà per altri 2 anni prima di ritirarsi e dedicarsi a tempo pieno alla gestione della medesima. Il 28 novembre del 1975, Hill si reca al circuito del Paul Ricard, in Francia, per una sessione di test con l’aereo del team, da lui stesso pilotato. Il giorno dopo, l’aereo riparte per l’Inghilterra, sempre con Hill dietro la cloche. In fase di atterraggio, con il carrello già estratto e i flap estesi, a soli 140 metri dal suolo l’aereo colpisce con l’ala un albero nascostosi nella fitta nebbia inglese: precipita, prende fuoco e uccide tutte le 6 persone a bordo, Hill compreso. Suo figlio Damon aveva da poco compiuto 15 anni. 19 anni dopo, vincerà anche lui il Mondiale F1 sull’imprendibile Williams FW18 Renault, diventando quindi il primo campione del mondo figlio di un altro campione del mondo. A oggi, solo un’altra famiglia è riuscita nell’impresa: nel 2016, infatti, Nico Rosberg è diventato campione del mondo sull’altrettanto imprendibile Mercedes W07, 24 anni dopo il trionfo del padre Keke (anche lui, come Damon, su Williams).

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Tra i 13 piloti capaci di vincere 2 delle 3 gare della Triple Crown, però, ce ne sono 2 ancora in attività, quindi potenzialmente in grado di emulare Graham Hill. Uno è il colombiano Juan Pablo Montoya: ha 2 vittorie a Indy (2000, 2015) e una a Montecarlo, nel 2003, in uno dei pochissimi GP della storia della F1 in cui, in pista, non si è verificato neanche un singolo sorpasso. Al momento, però, pare che Montoya non sia particolarmente interessato alla conquista di questo riconoscimento. L’altro pilota, invece, è di tutt’altro avviso. Fernando Alonso, alla fine del 2018, si è ufficialmente ritirato dalla F1, chiudendo con un palmarès di tutto rispetto (22 pole positions, 23 giri veloci, 32 vittorie, 2 Mondiali) ma che, se fosse stato un po’ meno avventato in certe scelte, sarebbe potuto essere anche più corposo. Nelle sue 18 stagioni in F1, ha vinto per 2 volte il GP di Montecarlo e, nella primavera del 2018, guidando una Toyota TS050 insieme ad altri 2 ex-piloti di F1 (Sebastien Buemi e Kazuki Nakajima), ha vinto anche la LM. Nel 2017 ha partecipato alla Indy 500 con la scuderia di Mario Andretti sponsorizzata da quella McLaren per cui correva in F1. Partito dalla quinta posizione, ha condotto la gara per 27 giri, ma ha dovuto ritirarsi per lo stesso motivo per cui non ha terminato molte delle sue ultime gare in F1: problemi al motore Honda. Ci riproverà quest’anno, presumibilmente.

Intorno alla LM, come avete visto, sono girate un sacco di storie. Mi piacerebbe poter dire “sono girate e gireranno” ma, purtroppo, nel mondo di oggi in cui il posto più sicuro per nascondere un’informazione è pagina 2 dei risultati di Google, una gara lunga 1.440 minuti non ha più né lo stesso fascino di prima sul c.d. “grande pubblico”, né, di conseguenza, la stessa copertura mediatica. Ciononostante, molte case automobilistiche continuano a puntare forte sulla LM e molti degli sviluppi tecnologici riguardanti, tra le tante cose, sicurezza, emissioni e consumi delle auto che guidiamo noi comuni mortali sono uno spillover degli investimenti fatti da loro per ben figurare in questa competizione. Già, le auto. Le storie trattate in questo post riguardano, principalmente, i protagonisti che, agli idrocarburi, preferiscono i carboidrati come forma di alimentazione, ma non si può parlare della LM senza parlare dei suoi protagonisti a 4 ruote. Purtroppo/per fortuna, servirà un post a parte.