Piste & Pistoni – Se mi lasci ti sfido (Ferrari vs Ford)

Ci eravamo lasciati con questo post. Nel frattempo, l’edizione 2019 della LM si è disputata tra il 15 e il 16 giugno, con la tutt’altro che inaspettata vittoria della Toyota. Quello che, invece, inaspettato lo è stato veramente, è l’epilogo finale. La casa nipponica, infatti, schierava due vetture. Una era guidata dal trio Alonso-Buemi-Nakajima, campione in carica e favorito per la vittoria finale, l’altra da Conway-Kobayashi-López. Nonostante i pronostici, è stato quest’ultimo equipaggio a condurre la gara fino a un’ora dal termine, quando, durante il turno di López, un sensore ha segnalato la presenza di una foratura lenta sulla gomma anteriore destra. Il pilota argentino è stato quindi richiamato ai box per sostituirla, ma, una volta effettuato il cambio, ci si è accorti che il sensore era malfunzionante e che la foratura era presente su un’altra gomma. López è stato quindi richiamato per un altro pit stop consentendo all’altra Toyota di prendere il comando e di tenere la testa della corsa fino allo scadere della ventiquattresima ora. Quella appena esposta è, ovviamente, la “versione ufficiale”. I malpensanti potrebbero, infatti, sospettare che la Toyota abbia voluto far vincere l’equipaggio di Alonso in modo da aumentare la propria visibilità mediatica e, in effetti, l’idea di sostituire un solo pneumatico invece che l’intero treno desta qualche perplessità. Comunque sia, la Storia non si fa con i complottismi e sull’albo d’oro della LM ci andrà, per la seconda volta, il nome dell’asturiano. Il suo secondo assalto alla Triple Crown menzionata nel post precedente, però, è fallito anche quest’anno, in quanto 13 millesimi di secondo di troppo in qualifica l’hanno tenuto fuori dalla 500 miglia di Indianapolis.

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La vittoria di una Toyota, come accennato, non è comunque mai stata messa in discussione, in quanto la casa di Aichi è rimasta l’unica, tra quelle che producono anche vetture stradali, a correre la LM nella categoria LMP1. Dietro a questo apparentemente misterioso acronimo (Le Mans Prototype 1) si cela la classe regina delle corse di durata. Se siete abituati alla Formula 1, sappiate che in altre competizioni è normale che, all’interno della stessa gara, corrano vetture appartenenti a diverse categorie prestazionali. Quindi, tecnicamente, la Toyota TS050 è stata la vincitrice della LM 2019 in quanto prima nella classifica globale, ma non l’unica vincitrice. Come accennato, infatti, nel WEC 2018/19 (World Endurance Championship, il Mondiale Durata di cui la LM è l’ultimo atto), le auto erano divise in due classi, a loro volta divise in due sotto-categorie. La prima classe è quella dei prototipi, auto costruite appositamente per queste gare, divisa in LMP1 e LMP2. La seconda classe, invece, è quella delle vetture Gran Turismo, ovvero auto da corsa derivate da quelle prodotte in serie, a sua volta divisa nelle sotto-categorie LMGTE Pro e LMGTE Am. Quest’anno, la LM di categoria è stata vinta da una Ferrari 488, mentre il campionato da una Porsche 911.

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Qualche giornalista ha parlato del successo della 488 come una specie di “riscatto” per la Rossa, il cui digiuno da Mondiali in F1 dura da 11 anni (verosimilmente 12, in quanto è estremamente difficile che si interrompa quest’anno), ma è difficile accettare questa versione. Anzitutto, la 488 vincitrice a LM è di una scuderia privata (la piacentina AF Corse), al contrario, ad esempio, della Porsche 911 che ha corso per la scuderia ufficiale di Stoccarda. Poi, perché il WEC di categoria è stato vinto dalla sopracitata tedesca. Infine perché, come abbiamo visto, la LM è, sì, rimasta nel cuore degli appassionati di auto ma il suo impatto mediatico nel 2019 è quasi risibile e, con il ritiro delle grandi case dalla categoria regina, le battaglie in pista e fuori per la supremazia alla Sarthe sono solo un ricordo. Peccato, perché in passato queste tenzoni hanno portato a scontri epici, uno dei quali approderà nei cinema di tutto il mondo nel novembre di quest’anno. Se volete arrivare preparati all’appuntamento, non avete che da continuare a leggere.

 

La nostra storia inizia alla fine del secolo XIX, quando sul nostro pianeta compare la seconda automobile. Da quel momento in poi, tra questi neonati mezzi meccanici si formerà il desiderio irrefrenabile di competere per la supremazia e il luogo principale dove sfidarsi diventerà ben presto la pista. Nulla di nuovo, in fondo: è da ben prima della nascita di Cristo che le persone riempiono le arene per assistere alle corse con i carri, emozionandosi nel guardare questi uomini (e, qualche millennio più tardi, anche donne) che lottano per portare il loro mezzo a tagliare il traguardo prima degli altri. La gente ama i vincitori e, da quando esiste il capitalismo, li finanzia, investendo nelle loro imprese e/o comprando i loro prodotti. Proprio per questo motivo, all’inizio del XX secolo, negli USA, i primi costruttori di automobili cercano finanziatori per le loro imprese cercando di primeggiare nelle competizioni a loro dedicate. Nel 1901, a Grosse Point, Michigan, è in programma una di queste corse. Tra i favoriti per la vittoria c’è Alexander Winton, un imprenditore che, dopo tanti anni passati a costruire biciclette, ha fondato la Winton Motor Carriage Company, con l’intenzione di sfondare nel neonato mercato delle automobili. Winton era anche un geniale inventore e, prima di morire nel 1932, registrerà più di 100 brevetti legati alle automobili. Tra questi, uno per un innovativo meccanismo sterzante che, in occasione della gara sopracitata, verrà montato sull’auto di un suo avversario, un altro imprenditore automobilistico in cerca di investitori dopo 2 fallimenti in pochi anni: il suo nome è Henry Ford, alla sua prima esperienza in pista. Winton domina la gara fino agli ultimissimi giri, quando un problema meccanico lo costringe a cedere la vittoria a Ford. Dopo la corsa, molti investitori si presenteranno a lui, interessati a finanziarlo. Ford chiuderà quindi la sua carriera da pilota dopo 1 gara e 1 vittoria e, 2 anni dopo, fonderà la Ford Motor Company.

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La Ford “Sweepstakes” vincitrice della corsa

Passano gli anni, nasce il fordismo e, come sappiamo, nel 1923 si corre la prima LM. 5 delle prime 8 edizioni, di cui le ultime 4 consecutive, vengono vinte dalla Bentley, finché, nel 1931, il suo dominio viene interrotto da una casa italiana. Il suo nome, dal 1918, è l’unione tra l’acronimo della denominazione originaria (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili) e il cognome dell’imprenditore che l’ha acquisita quell’anno, Nicola Romeo. Il modello che vincerà 4 LM consecutive si chiama 8C 2300. Il nome è poco fantasioso, visto che si riferisce al motore (8 cilindri e 2.300 cc di cilindrata), ma la linea, in compenso, è meravigliosa.

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Il nome 8C entra così nella storia dell’Alfa Romeo, tanto che, 73 anni dopo il suo ultimo trionfo a LM, la casa di Arese costruirà un’altra vettura chiamata 8C. Jeremy Clarkson, storico (ex) conduttore di Top Gear nonché noto alfista, la definirà “la più bella auto mai costruita” e ne giustificherà i difetti progettuali e la scarsa guidabilità definendola “un’opera d’arte”, perché, per essere tale, “non deve avere alcuno scopo, alcun fine, se non sé stessa”.

L’Alfa Romeo entra nella nostra storia perché, fino al 1932, ha annoverato tra i suoi piloti un ragazzo di Modena. Aveva pensato di smettere di correre già 7 anni prima, sconvolto dalla morte del suo caro amico Alberto Ascari, poi, alla nascita di suo figlio, aveva deciso definitivamente di appendere il casco al chiodo e dedicarsi alla sua omonima scuderia, che correva con Alfa stradali elaborate e il supporto ufficiale della casa madre. Il nome e, soprattutto, il cognome di questo ragazzo non ve lo devo certo dire io.

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Il primo “contatto” tra i protagonisti della nostra storia avviene, con tutta probabilità, tra il 1944 e il 1945. Qualche anno prima, Ferrari aveva interrotto i rapporti con l’Alfa Romeo e aveva fondato una nuova scuderia indipendente da Arese, chiamandola Auto-Avio Costruzioni (nell’accordo di uscita era, infatti, previsto che Ferrari non potesse usare il suo nome su auto da corsa per almeno 4 anni). Poco dopo, aveva trasferito la fabbrica circa 15 km a sud di Modena, in quello che, allora, era un paesino rurale. La leggenda dice che il suo nome derivi dal ritrovamento in quel luogo dei resti di due amanti (Mara e Nello) in fuga dalle rispettive famiglie ostili alla loro unione. La storia dice che la famiglia Araldini, originaria di Marano sul Panaro, vi costruì un castello (tutt’ora presente, vicino al cimitero) per sfruttarne la posizione strategica, fondando de facto un nuovo paese, una “piccola Marano”. Oggi Maranello conta quasi 17.000 abitanti ed è un importante centro industriale noto in tutto il mondo, grazie soprattutto alle ceramiche e, ovviamente, alla fabbrica menzionata in precedenza. Torniamo agli anni ’40: arriva la Grande Guerra, l’Italia vi partecipa e l’Auto-Avio Costruzioni è costretta a riorientare la produzione in chiave bellica. Per questo motivo, subisce più di un bombardamento da parte dell’aviazione USA, i cui aerei sono stati, con tutta probabilità, assemblati a Detroit, nella fabbrica della Ford, che aveva subito identico trattamento. Finita la Guerra, l’Auto-Avio Costruzioni viene finalmente ribattezzata Scuderia Ferrari, inizia a produrre auto da corsa e, soprattutto, a vincere queste ultime. Nel 1949 partecipa per la prima volta alla LM con una 166 e vince, diventando la prima (e, finora, unica) auto nella storia a vincere anche la Targa Florio e la Mille Miglia nello stesso anno.

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Dietro al volante della 166, a LM, c’è Luigi Chinetti, varesotto emigrato negli USA durante la Guerra, che, oltre a correre, diventerà l’importatore ufficiale della Ferrari al di là dell’Atlantico, nonché il gestore di quella che, per un bel po’ di anni, sarà l’unica concessionaria Ferrari del Nord America (a Greenwich, Connecticut). Già, perché, nel frattempo, Enzo ha capito che le corse non sono in grado di auto-finanziarsi, cosicché, seppur di malavoglia, ha iniziato a produrre vetture stradali. Queste auto, nonostante prezzi elevati ed economie nazionali in ginocchio dalla Guerra, si vendono alla grande, proprio perché, dopo 6 anni da incubo (più 20 di fascismo ecc…), la gente vuole ricominciare a sognare e le corse automobilistiche rispondono perfettamente a questo bisogno. Uomini e donne vedono queste vetture rosse che sfrecciano in pista e sognano di possederne una. Anche negli USA le corse fanno sognare migliaia di persone, ma, oltreoceano, la situazione è particolare. A causa dell’incidente alla LM del 1955, descritto nel post precedente, e del disastro alla 500 miglia della Virginia 2 anni dopo (5 morti, tra cui un bambino), la AMA (Automobile Manifacturers of America), di cui la Ford è membro e di cui Henry Ford II è presidente, ha infatti deciso di auto-imporsi il divieto di coinvolgimento nelle competizioni sportive. Questo divieto, pur non venendo ufficialmente infranto per anni, viene comunque ampiamente “aggirato”, principalmente tramite finanziamenti più o meno trasparenti a squadre corse terze. Le auto stradali americane si danno così battaglia nella pubblicità a colpi di comfort, ma non è lo sterzo leggero o il sedile comodo a far battere i cuori dei cittadini statunitensi. La General Motors è la prima a capire che questo gentlemen’s agreement è destinato a saltare molto presto e, riprendendo un progetto inizialmente accantonato proprio a causa di questo accordo, mette in commercio un auto sportiva che, ancora oggi, a più di 60 anni di distanza, è l’oggetto dei desideri di molti appassionati di auto, sebbene con un look completamente diverso. Questa macchina è la Chevrolet Corvette.

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La Corvette si rivela una doppia vittoria per la GM: non solo domina le competizioni, ma mostra l’imperatore finalmente nudo. Detto in altri termini, ci si accorge rapidamente che c’è una forte correlazione tra le prestazioni della domenica in pista e quelle del lunedì dal concessionario. In un solo anno, infatti, la GM si pappa circa il 15% della fetta di mercato della Ford. Ciononostante, Henry Ford vuole mantenere la sua parola sul non correre e imposta tutta la sua campagna pubblicitaria su quanto siano comode e sicure le sue auto. Leggendo il giornale, però, si accorge che le sue inserzioni, all’occhio del lettore, sono poco più che distrazioni dall’articolo principale, che magnifica i successi in pista della piccola Ferrari da Maranello, vincitrice di 7 LM in 8 anni. Ford, quindi, si lamenta, tra il serio e il faceto, con la stampa: “com’è che io spendo tutti questi soldi in pubblicità e questo meccanico italiano mi ruba la scena, peraltro gratis?”. Ferrari lo viene a sapere e, laconicamente, gli risponde: “signor Ford, anche lei può finire gratis in prima pagina, basta che si compri una Ferrari”. È a questo punto della storia che interviene Lee Iacocca, manager della Ford di chiare origini italiane, che esorta il suo capo a seguire il consiglio del Drake, con una piccola variante: non avrebbe dovuto comprare una Ferrari, bensì la Ferrari. Il piano ha senso. Il Drake ha 65 anni, un’età discretamente avanzata per l’epoca (l’aspettativa di vita, per un uomo italiano, nel 1963 era di 69 anni). Suo figlio Alfredo gli è stato portato via dopo soli 24 anni a causa di una malattia genetica degenerativa nota come “distrofia di Duchenne”. Si vocifera che Piero Lardi, quel ragazzo che lavora in fabbrica da lui e che porta il cognome della madre perché il padre è ignoto, sia in realtà suo figlio adulterino, ma, nell’Italia bigotta dell’epoca, figuriamoci se lo avrebbe mai riconosciuto, tanto meno nominato erede della baracca (entrambe le cose avverranno, ma solo molto tempo dopo). Inoltre, Ferrari si stava rendendo conto che i proventi delle vendite delle auto stradali non bastavano a coprire le spese delle corse, ergo servivano volumi maggiori o iniezioni di capitale dall’esterno. Insomma, secondo Iacocca ci sono tutte le condizioni per far funzionare l’affare. Così, nel maggio del 1963, Ford contatta Ferrari e gli presenta la sua proposta. Verrebbero create di due società: Ford-Ferrari per la produzione di vetture gran turismo stradali e Ferrari-Ford per le corse automobilistiche. I due imprenditori trovano l’accordo su tutti i punti, tranne uno. Ferrari vuole che il reparto corse sia completamente indipendente da Detroit, mentre Ford vuole il potere di veto sulle spese superiori a una certa soglia e vuole poter influenzare la scelta dei piloti e delle competizioni a cui iscriversi. Inoltre, a Ferrari l’idea di vendere la sua impresa a degli stranieri non piace tantissimo. Una volta capito che Ford non avrebbe ceduto sulle corse e che la FIAT, che già aveva sostenuto gli sforzi della Ferrari in passato, sarebbe intervenuta economicamente in caso di bisogno, il Drake rompe definitivamente le trattative con Detroit. Ford non la prende bene e medita vendetta, tremenda vendetta. Convoca un gruppo di manager e ingegneri della sua impresa e gli comunica il piano. Verrà creata una nuova divisione, la Ford Advanced Vehicles. Scopo: battere la Ferrari in pista, sul loro terreno preferito. Come raggiungerlo: costruire una nuova auto, la quale dovrà vincere la prossima LM. Budget: chiedete e vi sarà dato. Staff: loro, più i migliori manager e ingegneri disponibili sul mercato, da attirare a suon di dollari. La nuova divisione si mette al lavoro e, dopo aver preso come base una vettura da corsa motorizzata Ford, la Lola Mk6, nel 1964 la casa dell’ovale blu presenta al mondo la sua creatura, che viene battezzata GT40 in quanto è alta solo 40 pollici (circa 102 cm) dal suolo.

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La Ferrari si presenta alla sfida da campione in carica, nonostante il terremoto del 1961. Non ve lo ricordate? Ovvio, non sto parlando letteralmente di una scossa tellurica, ma di un grosso cambiamento interno all’azienda. Era successo, infatti, che Laura Garello in Ferrari, moglie di Enzo, avesse iniziato a rendere impossibile la vita del marito a casa, in quanto sospettosa che i suoi frequenti rientri tardivi fossero dovuti a ragioni, diciamo così, non strettamente lavorative. Il Drake si era, quindi, trovato “costretto” ad assumerla alla Ferrari, in modo che potesse vedere in prima persona quanto il suo lavoro richiedesse tempo e impegno. Il risultato non fu però quello sperato: la presenza della signora Garello dentro la Ferrari era, infatti, tutt’altro che silenziosa e, oltre a tormentare il marito come quando erano a casa, era solita prendersela anche con gli altri dipendenti. Questa grottesca situazione aveva portato il direttore tecnico Carlo Chiti a recarsi nell’ufficio del Drake e dirgli chiaro e tondo: “senta, Commendatore, io non ce la faccio più. O licenzia sua moglie, o licenzia me”. La Ferrari si trovò magicamente senza un direttore tecnico. Non solo: un nutrito gruppo di direttori e quadri dell’azienda, saputo del licenziamento di Chiti, aveva firmato una lettera in cui si chiedeva il suo reintegro pena le loro dimissioni. Anche qua, “la seconda che hai detto” (cit.). Per far fronte a queste defezioni, 50 anni prima che Marchionne insistesse sulla valorizzazione dei talenti (veri o presunti nel suo caso, ma questa è un’altra storia) interni alla fabbrica, Ferrari aveva promosso alcuni dei suoi operai alle cariche che erano dei loro (ex) responsabili. Tra questi, un meccanico appena 26enne di nome Mauro Forghieri, promosso al vertice del Reparto Corse e presto ribattezzato “Furia” per via del suo temperamento.

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In fase di progettazione della vettura che avrebbe dovuto correre la LM del 1963, “Furia” era andato da Ferrari e gli aveva proposto di montare sulla vettura quel motore V12 che, all’epoca, era una novità per la Ferrari, ma che, in seguito, sarebbe diventato uno dei suoi tratti più iconici. Non solo: gli aveva proposto di montarlo in posizione posteriore, dietro al pilota. Il Drake e, più o meno, l’intera fabbrica lo avevano inizialmente sbertucciato. “Ma quando mai si è visto un carro con i buoi messi dietro a spingere???”. Ferrari, però, avendo fiducia in Forghieri, aveva deciso di dargli una chance: “e va bene, fatti costruire un prototipo, poi vai a Modena con l’inglese e vediamo come si comporta”. “L’inglese” è John Surtees, 7 volte Campione del Mondo di motociclismo, recentemente passato alle 4 ruote con la Ferrari, nel Mondiale F1. Excursus: l’anno dopo, Surtees lo vincerà e, al giorno d’oggi, è l’unico pilota della storia ad aver vinto sia il Motomondiale che il Mondiale F1. Con “Modena”, invece, il Drake intendeva il vecchio autodromo di Modena. Specifico “vecchio” perché quello attualmente presente è stato inaugurato solo nel 2011. Di quello in cui sono andati Forghieri e Surtees a testare la nuova macchina è rimasta solo la torretta che condivideva con l’adiacente aerodromo e il nome della strada che ne costeggia il lato occidentale (viale Autodromo, appunto). In quel luogo ora sorge il parco Enzo Ferrari, che, nel 2017, ha fatto da cornice al Modena Park, il concerto che, alla data di pubblicazione di questo post, detiene il record per il maggior numero di spettatori paganti. Quell’erba, però, di record ne aveva già visti altri. Al volante della nuova auto, infatti, Surtees aveva sbriciolato tutti i record della vettura precedente e fatto sì che Forghieri ottenesse il placet per portare avanti il progetto. La nuova Ferrari 250P vincerà la LM del 1963 con Ludovico Scarfiotti e Lorenzo Bandini.

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Torniamo alla nostra sfida. Siamo al via della LM del 1964. Gli spalti sono gremiti, il pubblico è galvanizzato dall’idea che la Ford abbia speso una barca di soldi per costruire l’anti-Ferrari e non vede l’ora di vedere il responso della pista. Detroit porta 3 GT40, mentre Maranello porta le evoluzioni della 250P, nello specifico 3 275P e una 330P. La partenza è favorevole alle Ferrari, che si portano subito nelle prime 3 posizioni, ma, al secondo giro, la GT40 di Richie Ginther le svernicia clamorosamente lungo il rettilineo Hunaudières. Non ci sono ancora autovelox sul circuito, ma si stima che la GT40 abbia raggiunto i 340 km/h, una velocità degna di una F1 odierna. Dopo un’ora, la GT40 in testa ha già completato 15 giri e viaggia con 40″ di vantaggio sulle Ferrari. Inizia però ad avere una serie di problemi meccanici, perde la testa della corsa e, dopo 6 ore, deve ritirarsi, perché il cambio non riesce più a ingranare marce superiori alle seconda. Un’ora prima si era ritirata un’altra GT40 perché il motore aveva preso fuoco. 8 ore dopo toccherà all’unica Ford superstite, sempre per problemi al cambio. Morale della favola: la Ford ha speso decine di milioni di dollari per completare sì e no un terzo della corsa e, per giunta, assistere a una tripletta Ferrari, con 5 Rosse nei primi 6 posti.

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La 275P di Nino Vaccarella e Jean Guichet vince la LM del 1964

Henry Ford non è esattamente felice del risultato. Capisce che gettare milioni di dollari non è sufficiente per vincere, serve anche il know how, in particolare su come battere la Ferrari. In quel momento, ha un lampo: non solo lui conosce una persona che c’è riuscita, ma ci collabora pure. Quel qualcuno è una figura che definire “peculiare” sarebbe un eufemismo. Il suo nome è Carroll Shelby.

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Nonostante abbia sofferto di cuore fin da quando aveva 7 (!) anni, si è sposato 7 volte e, in generale, ha avuto una vita folle. Il giorno in cui ha preso la patente, è andato a farsi un giro con la Dodge del padre ed è stato beccato dalla polizia mentre faceva i 140 km/h. Ha abbandonato l’università causa guerra e, finito il conflitto, si è dato alle corse. Nel deserto salato di Bonneville, ha infranto 16 record di velocità. Ha corso 8 gare nel Mondiale F1. Nel 1955, al volante di una Ferrari 750 Monza, ha corso la 12 ore di Sebring. Con una mano rotta. Si era fatto mettere un gesso speciale in vetroresina e l’aveva legato allo sterzo. E per poco non l’aveva vinta. Nel 1959 ha corso la LM su un’Aston Martin DBR1, portando la casa inglese alla sua prima vittoria di sempre, nonostante fosse reduce da una fortissima dissenteria. Racconterà che, in quelle 24 ore, non aveva ingerito nulla che non fossero pastiglie di antidiarroico e, sul podio, “qualcuno mi ficcò in bocca una bottiglia di champagne e non mi fece proprio benissimo”. Nel 1960, il ritiro dalle corse. Il suo fisico non ce la faceva più e le pastiglie di nitroglicerina che ingoiava durante le corse per alleviare il dolore non erano più sufficienti. Un momento: come sarebbe a dire “durante”? Già, quel pazzo di Shelby se le buttava giù per la gola nel bel mezzo della corsa. Nella sua ultima gara da pilota, a Laguna Seca, era arrivato secondo e aveva dichiarato: “avrei vinto la dannata corsa, se non avessi dovuto rallentare per prendere la pillola”. Appeso il casco al chiodo, era rimasto nel settore, fondando la Shelby American. Come molti costruttori “minori”, il motore lo aveva dovuto cercare da un fornitore esterno. Lui non voleva nulla che non fosse American muscle, un V8 made in USA, e, visto che il suo obiettivo era battere le Corvette, non poteva che bussare alla porta della Ford. Il binomio Shelby-Ford si era fatto un nome e, mentre le GT40 subivano la cocente sconfitta di cui sopra alla LM del 1964, la Shelby Daytona arrivava quarta assoluta e prima nella categoria GT, ottenendo lo scopo per cui era stata costruita, ovvero battere la Ferrari 250 GTO. Già, perché, come se non bastasse, anche Shelby aveva un conto aperto con la casa di Maranello. Infatti, pur avendo corso per il Drake, dopo la morte del suo grande amico Luigi Musso al GP di Francia del 1958, Shelby aveva giurato vendetta contro Enzo Ferrari e dedicato la sua vita professionale allo scopo di batterlo. Henry Ford non può fare altro che affidare a lui lo sviluppo della nuova GT40.

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Shelby Daytona del 1964. Ne sono stato prodotte solo 6

Tutte e 8 (compreso Carroll Shelby) le persone che lavorano alla Shelby American si dedicano quindi al progetto della nuova GT40. I 7 dipendenti sono esattamente come il titolare: personaggi eccentrici, amanti degli scherzi e della bella vita, casinisti in senso buono provenienti da tutto il mondo ma, cosa fondamentale, estremamente competenti nel loro ambito. In particolare, il capo ingegnere Phil Remington è un vero e proprio genio della meccanica: con gli strumenti e i materiali giusti, le uniche cose al di fuori della sua portata sono quelle proibite dalle leggi della fisica. È anche una persona estremamente scaltra: ai tempi della guerra, era riuscito ad arruolarsi nonostante fosse troppo giovane (mentendo sull’età) e daltonico (memorizzando la tavola optometrica). L’ingegnere californiano mette subito mano alla GT40, cambiandone la geometria delle sospensioni e il motore. Parla costantemente con Ken Miles, anche lui ingegnere e, soprattutto, colui che avrebbe pilotato l’auto alla LM. Le nuove GT40 esordiscono alla 24 ore di Daytona del 1965. Alla partenza, l’auto guidata da Bob Bondurant brucia la Ferrari di Surtees e, dopo la seconda curva (si corre in un ovale), tra le due contendenti c’è già una distanza equivalente a 18 macchine. La gara è senza storia: la GT40 vince stradomina la prima corsa che riesce a terminare. Improvvisamente, i favoriti per la LM sono loro, mentre le Ferrari sono gli underdogs. C’è però da confermarla sul campo, questa superiorità sulla carta. L’attesa è febbrile e, ad alimentare ulteriormente l’hype, arriva la notizia che, per la prima volta nella sua storia, la LM verrà trasmessa dalle televisioni americane. A Detroit sono talmente carichi che si presentano in Francia con ben 11 auto a marchio e/o a motore Ford: 6 GT40 per la categoria prototipi e 5 Shelby Daytona per la GT. Per non essere da meno, la Ferrari ne porta 12. La Ford di Phil Hill guadagna la pole position girando in 3′ 32″, ben 30″ più veloce di quella registrata solo 4 anni prima. Le tribune sono stracolme. La partenza è una fotocopia di quella di Daytona, con le Ford a fare il vuoto dietro di loro. Dopo sole 3 ore, però, le GT40 in corsa si sono già dimezzate, a causa di 3 ritiri per problemi meccanici. Un’ora dopo, si aggiunge a loro la Ford di Miles (rottura del cambio) e, a sole 7 ore dalla partenza, anche le 2 “superstiti” devono ritirarsi per problemi meccanici. Quella che sarebbe dovuta essere la LM del riscatto della Ford è finita dopo 7 ore: sono durate addirittura meno dell’anno precedente! Come se non bastasse, le 2 Ferrari 250LM fanno doppietta e, al terzo posto assoluto, nonché vincitrice della categoria GT, arriva un’altra Rossa, la 275 GTB.

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La 250LM numero 21 guidata da Jochen Rindt, Masten Gregory e… continuate a leggere!

La vittoria della Ferrari ha due segreti, di cui uno rimasto tale fino a una decina di anni fa. Partiamo dal primo, il più ovvio: l’affidabilità. Enzo Ferrari, come ogni vincente, odiava perdere. In particolare, odiava perdere quando era il più veloce. Ciò lo rendeva molto poco tollerante nei confronti dei guasti meccanici in gara. Per far sì che i suoi dipendenti fossero altrettanto sensibili a questo aspetto, aveva sviluppato un sistema di moral suasion molto particolare. Aveva, infatti, allestito, intorno ai muri della sala riunioni di Maranello, una serie di teche. Ogni volta che, nel week end di gara, un pezzo si rompeva, questo finiva in una delle suddette teche, con tanto di targhetta a indicare data e luogo del misfatto. In questo modo, nella consueta riunione del lunedì, i vari capi reparto potevano ammirare (si fa per dire) quello che verrà presto ribattezzato “il museo degli orrori” e Ferrari poteva evitare di sprecare tempo ed energie a rimproverare i colpevoli. Il pezzo era lì, ergo lui sapeva, ergo lui non era contento. Un capolavoro di comunicazione. L’altro segreto, invece, è degno di un romanzo giallo. Come avete letto nella didascalia, l’austriaco Jochen Rindt e l’americano Masten Gregory erano i piloti scelti per guidare la 250LM del team di Luigi Chinetti (ve lo ricordate?) alla Sarthe. La Ferrari non poteva scegliere due piloti più diversi. Rindt era un pilota dallo stile di guida molto ardimentoso e aggressivo: ciò lo porterà a coronare il suo sogno di una vita, vincere il Mondiale F1 (1970), ma gli impedirà anche di vedere quel giorno. Morirà infatti a Monza, durante le qualifiche del GP d’Italia, diventando così il primo (e, finora, unico) Campione del Mondo postumo. Gregory, invece, era un pilota molto più conservatore, anche a causa dei problemi di vista che gli imponevano di correre con dei vistosi occhiali in stile Filini. Questo suo difetto visivo, ovviamente, rappresentava un problema in una gara lunga 24 ore dove, gioco forza, si corre anche di notte. Come se non bastasse, nelle ore buie di quella LM si era formata una fitta nebbia e Gregory aveva deciso di fermarsi ai box per cedere il volante a Rindt. Che però non si trovava da nessuna parte. Quindi? A Chinetti era venuta in mente una mossa clamorosa. Ai box c’era Ed Hugus, il pilota di riserva che, però, a norma di regolamento, visto che entrambi i titolari avevano già corso, non avrebbe più potuto correre. Ciononostante, Chinetti lo aveva fatto cambiare in gran segreto e lo aveva messo dietro al volante, “tanto è notte, chi vuoi che se ne accorga?”. E, infatti, non se ne accorgerà nessuno per più di 40 anni. Se oggi siamo a conoscenza di questa storia è solo perché, qualche tempo dopo la sua morte (2006), un suo fan renderà pubblica una sua lettera dell’anno prima in cui egli confessava la mossa truffaldina.

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Torniamo a Ford, che, ovviamente, è furioso. Un’altra vagonata di dollari spesa per ritrovarsi con il proverbiale pugno di mosche in mano. La stampa americana gira il coltello nella piaga, uscendo con il titolo “Omicidio all’italiana” e riassumendo il tutto con “l’imponente squadra Ford è stata massacrata a LM, quando una Ferrari italiana di potenza inferiore, guidata da un americano miope e da un austriaco sconosciuto, ha vinto la classica corsa di durata francese”.

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Ford riflette: io ho molti più soldi di Ferrari. Ciononostante, loro sono più bravi a fare macchine. Ho provato a comprare la Ferrari, non me l’hanno venduta. Ma a me non serve tutta la Ferrari per vincere. E quello che mi serve, lo posso comprare. Alza quindi la cornetta del telefono. Compone prima lo 0039, prefisso internazionale dell’Italia. Poi il 536, prefisso (debitamente privato dello 0 iniziale) di Maranello. Poi, presumibilmente, il 94, perché da quando ho memoria i numeri di Maranello sono sempre iniziati per 94. Infine, 4 numeri che noi non conosciamo ma Ford, evidentemente, sì. “Pronto, casa Forghieri?”. Ford vuole portare via Furia al Drake e, per farlo, gli offre uno stipendio di 4/5 volte superiore rispetto a quello percepito in Ferrari. Non solo: aggiunge al pacchetto casa, auto e la garanzia che la tuition universitaria dei suoi (eventuali) figli verrà coperta per intero dalla Ford. Come nel famoso spot della Mastercard, però, ci sono cose che non si possono comprare, tra cui la lealtà di Forghieri nei confronti di Ferrari. “Thanks, but no thanks”. Come se non bastasse, Maranello “ruba” Bondurant a Detroit, il quale, l’anno dopo, avrebbe corso la LM con la Ferrari. A Ford rimane una sola cosa da fare: chiamare Shelby e dirgli, chiaro e tondo, che la LM del 1966 sarà la sua ultima chance. Per prima cosa, Carroll potenzia il motore, facendo in modo che a una cilindrata (e, soprattutto, a un peso) così importante corrisponda anche una potenza adeguata. Poi, però, bisogna affrontare IL problema, ovvero l’affidabilità. Grazie, ancora a una volta, ai generosi fondi di Henry Ford, Shelby si fa costruire un robot in grado di riprodurre le condizioni di guida a LM. A livello tecnologico, siamo ancora lontani anni luce dai simulatori attualmente in dotazione alle scuderie di F1 (o anche solo a quelli acquistabili da chiunque abbia un PC, come iRacing, Assetto Corsa o rFactor), ma per il 1966 si tratta di un’innovazione veramente notevole. Le nuove GT40 riescono a completare un long run di 40 ore e il problema principale sembra, quindi, risolto. Si passa, dunque, ad affrontare il problema dei freni. Ovviamente la LM è massacrante per loro, in quanto, durante i 6 Km del rettilineo Hunaudières, fanno in tempo a raffreddarsi prima di affrontare la curva Mulsanne, dove in poco tempo si trovano a superare i 600 °C. Ancora una volta, interviene il genio di Remington, che inventa un modo per sostituire l’intero sistema frenante ai box senza perdere troppo tempo. Infine, un problema alquanto singolare: vi ricordate che la GT40 è molto bassa? Ecco, Dan Gurney, pilota a cui viene affidata una delle nuove auto, non lo è: per colpa dei suoi 193 cm non riesce a stare dentro l’auto. Alzare la macchina è fuori discussione, ne stravolgerebbe l’aerodinamica. E allora? Allora si crea una piccola bolla sul tetto in prossimità del sedile del guidatore che, proprio in suo onore, passerà alla storia come la “Gurney bubble“.

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Le nuove Ford GT40 MkII esordiscono a Daytona e, come l’anno prima, fanno tripletta. A Sebring, la Ferrari di Mario Andretti prova a tenere il passo delle Ford ma, nel farlo, rompe componenti a ripetizione fin quando un incendio al motore non gli farà sventolare bandiera bianca. Altra tripletta Ford e altra vittoria per Ken Miles, nonostante, all’ultimo giro, fosse doppiato. L’altra GT40, quella di Gurney, infatti, rompe poco prima del traguardo, con il pilota che scende a spingerla 18 anni prima di Nigel Mansell (ricordate?) e venendo, per questo, squalificato. Miles, contrariamente a Lewis Hamilton post-Montreal 2019, dirà di “vergognarsi un po’” per la vittoria. Ormai manca solo un tassello, quello più prestigioso. La Ford si presenta alla LM del 1966 con 8 GT40 MkII. La Ferrari, invece, schiera il suo nuovo prototipo, la 330 P3.

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Delle 2 P3 ufficiali, una è affidata alla coppia formata da John Surtees e Ludovico Scarfiotti. Il pilota inglese, che avrebbe dovuto correre la prima parte di gara, suggerisce al team manager Eugenio Dragoni di provare a tendere una trappola alle Ford. Non c’è modo di batterle in velocità, però possiamo “provocarle”, spingendo forte fin dai primi giri. “Conosco i loro piloti, vorranno tenere il nostro ritmo e, così facendo, forse romperanno di nuovo”, dice Surtees. Dragoni, un po’ imbarazzato, gli risponde, invece, che sarà il suo compagno a iniziare la gara. La ragione è squisitamente politica: in tribuna a LM, infatti, ci sarà anche Gianni Agnelli, colui che, qualche mese prima, era riuscito dove Ford aveva fallito, acquistando il 50% della Ferrari tramite la FIAT, e, incidentalmente, zio di Scarfiotti. Nella prima di una lunga serie di nefaste interferenze da Torino, “l’Avvocato” ha fatto capire che gradirebbe che il primo turno spettasse a suo nipote. Surtees non crede alle sue orecchie, si reca immediatamente a Maranello e chiede lumi a Ferrari in persona. Il Drake conferma tutto e Surtees pianta in asso la Rossa, venendo sostituito dal connazionale Mike Parks. Excursus: curioso come Ferrari avesse rinunciato a vendere a Ford (soprattutto) perché non voleva interferenze sul reparto corse per poi vendere alla FIAT che, come scritto in questo post e come già visto in questo blog, si rivelerà un socio tutt’altro che silenzioso. Peraltro, qualche decennio dopo, la Ferrari passerà in mani tecnicamente straniere e la sua anima da corsa verrà più volte sottomessa agli obiettivi commerciali del gruppo FCA. Chissà se, dotato della proverbiale sfera di cristallo, il Drake avrebbe preso le stesse decisioni. Se avete letto il precedente post, sapete già come va a finire. Tripletta GT40, con Bruce McLaren a fregare la vittoria a Miles. Henry Ford può finalmente gioire, ma sa bene che una vittoria non basta. La Ferrari li ha sconfitti 2 volte, bisogna almeno pareggiare i conti. Il Drake e Forghieri, però, sono intenzionati a impedirglielo e, dalle ceneri della P3, creano la 330 P4. Meccanicamente è molto migliorata, con un motore a 3 valvole per cilindro derivato dalla F1, un passo più lungo, un nuovo cambio, una nuova trasmissione (non più comprata da fornitori esterni ma costruita a Maranello) e nuove sospensioni. Esteticamente sembra simile alla P3, ma nasconde un meticoloso lavoro in galleria del vento per migliorarne l’aerodinamica.

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Anche nel 1967, Daytona è il primo terreno di scontro tra Ford e Ferrari. Detroit porta 6 GT40 MkII, non troppo diverse da quelle che hanno trionfato a LM. Maranello porta 2 P4 e una P3 evoluta, chiamata ufficialmente 412P, per il team di Chinetti. Nell’arco delle 24 ore, tutte le Ford tranne una rompono la trasmissione. La Ferrari fa tripletta e, con una mossa studiata da Franco Lini, giornalista e nuovo direttore tecnico della Ferrari dopo le dimissioni di Dragoni, arriva in parata come le Ford a LM l’anno prima.

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Questo risultato, ovviamente, preoccupa Ford, anche perché, per la prima volta da quando è nata, la GT40 non è la più veloce del mazzo. Con così poco tempo per renderla più veloce, Remington decide di imitare la Ferrari e portare anche la sua auto in galleria del vento. Quando ne uscirà, avrà cambiato parzialmente nome (Ford GT40 MkIV) e radicalmente aspetto.

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La nuova GT40 è 100% made in USA e, inoltre, ogni pezzo che compone il suo motore può essere acquistato da chiunque si trovi su suolo americano. La MkIV domina a Sebring, girando dai 7 ai 10 secondi più veloce della MkII, ma non è un test del tutto affidabile: la Ferrari è talmente convinta della propria superiorità che non ha portato neanche una macchina in Germania. Si arriva così allo showdown finale, la LM. La Ford si presenta in Francia con 4 MkIV ufficiali, una delle quali guidata dalla coppia formata da Dan Gurney e AJ Foyt, due piloti che, nelle competizioni a stelle e strisce, sono acerrimi rivali; molti giornalisti si chiedono se non sia un rischio eccessivo farli correre nella stessa macchina. La Ferrari risponde con 4 P4 (di cui una Spyder), 3 412P e una 275 GTB per la categoria GT. Durante le qualifiche, le Ford sono subito velocissime, ma ci sono due problemi. Il primo: quando le GT40 raggiungono la velocità massima, dei pezzettini di asfalto si staccano e si schiantano contro il parabrezza con una forza sufficiente a danneggiarlo. Non ci sono abbastanza pezzi di ricambio. Che si fa? Ford si reca al telefono più vicino e chiama Detroit. Nottetempo, un aereo su cui viaggiano una dozzina di parabrezza nuovi di pacca atterra vicino a Le Mans: risolto. Secondo problema: durante la gara, la MkIV ha nuovamente dei problemi con i freni e passare in pochi secondi da 350 a 50 km/h per affrontare la curva Mulsanne è un problema. Gurney e Foyt inventano quindi una nuova tecnica. Il primo, con abbondante dose di autoironia, la chiamerà chicken shit braking, ma i piloti di F1 che la usano oggi (principalmente per risparmiare carburante, perk secondario ma estremamente apprezzato) la conoscono come lift and coast. Questa tecnica è molto semplice, ma estremamente efficace: prima di arrivare al punto di frenata, si alza il piede dall’acceleratore, in modo da iniziare la decelerazione in maniera più dolce grazie al freno motore e applicare quindi meno pressione (e, quindi, meno sollecitazione) sui freni. 7 ore dopo la partenza c’è la prima vittima illustre, con la GT40 di Denny Hulme e Lloyd Ruby che deve ritirarsi per un incidente. Un’ora dopo si ritira la P4 Spyder di Chris Amon e Nino Vaccarella. Poco dopo la metà, anche la Ford di Andretti è coinvolta un incidente ed è fuori dalla corsa. A 6 ore dalla fine, deve dare forfait un’altra P4. Rimangono 2 Ford e 2 Ferrari. Gurney comanda la corsa, ma la P4 di Scarfiotti e Parks non è distante, nonostante l’inglese sia stremato perché, a causa di un forte mal di stomaco del compagno, è al terzo turno di guida consecutivo. La coppia potenzialmente esplosiva, però, non detona: Gurney spinge e fa i giri veloci, ma Foyt rinuncia all’idea di battere i suoi tempi e guida in maniera pulita e rispettosa della meccanica. Anche qua, se avete letto il post precedente, sapete com’è andata a finire. Gurney e Foyt vincono la LM, ma la Ferrari salva l’onore riempiendo gli altri 2 gradini del podio, arrivando davanti all’altra GT40 superstite e vincendo, con la 275 GTB, la categoria GT. Sapete anche del famoso champagne di Gurney, ma forse non sapete che, per festeggiare la vittoria, Ford si accende un sigaro. Fin qua tutto normale, il sigaro post-vittoria è un’usanza molto comune nel Nord America. Peccato che, per accenderlo, usi una banconota da 100 franchi, giusto per far capire a tutti che “lui può”.

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Non si sfideranno più, Ford e Ferrari, non a LM perlomeno. L’anno successivo, un cambio di regolamento farà rinunciare all’iscrizione le scuderie ufficiali. Vincerà una vecchia GT40 MkI di una scuderia privata e lo stesso accadrà nel 1969. Quell’anno, la Ferrari era tornata alla LM con il suo nuovo prototipo, la 312P, ma nessuna delle 2 auto iscritte vedrà la bandiera a scacchi. La scuderia di Maranello farà qualche altro tentativo, finché, nel 1973, la FIAT (dicevamo?) gli imporrà di ritirarsi definitivamente dalla categoria prototipi e di concentrare gli sforzi sulla F1, nel frattempo diventata la competizione regina delle 4 ruote, dove avrà decisamente maggiore successo. Anche la Ford si cimenterà nella F1 e, come motorista, andrà anche piuttosto bene. Saranno a lungo il secondo più vincente della storia (dietro, ovviamente, alla Ferrari), fino a quando, il 26 maggio 2019, la Mercedes di Hamilton vincerà il GP di Monaco, dando alla casa di Stoccarda la loro vittoria numero 177 (da motorista) e superando quindi quella di Detroit, ferma a 176 dall’aprile 2003, quando Giancarlo Fisichella aveva vinto in Brasile sulla sua Jordan-Ford. Gli eredi di Henry Ford proveranno anche a impegnarsi in prima persona: nel 2000 acquisteranno l’omonima scuderia di Jackie Stewart, la ribattezzeranno Jaguar Racing e “ruberanno” proprio alla Ferrari il pilota più in voga del momento, quell’Eddie Irvine che aveva perso il Mondiale 1999 all’ultima gara. Nonostante la splendida livrea, il bottino sarà alquanto misero, con 2 terzi posti ottenuti in 85 GP, senza mai andare oltre il 7° posto nel Mondiale Costruttori. Nello stesso arco di tempo, la Ferrari vincerà 58 gare (su 85, con 23 doppiette) e 10 Mondiali. Nel 2005 venderanno la baracca alla Red Bull che, 5 anni più tardi, vincerà 8 Mondiali in 4 anni. Non era decisamente destino.

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Gli anni d’oro della rivalità tra Ford e Ferrari sono stati così belli e intensi che non importa stabilire un vincitore. La pista ha decretato un pareggio, con 2 vittorie a testa. Qualcuno potrebbe dire che ha vinto Ford, entrando da newcomer e riuscendo a battere la dominante Ferrari in soli 3 anni. Qualcun’altro potrebbe dire il contrario, visto che la piccola scuderia di Maranello è riuscita a tenere testa e a battere per 2 volte il gigante di Detroit nonostante l’enorme disparità di forza economica. Tutti siamo d’accordo, però, nel definire quegli anni come alcuni tra i più appassionanti della storia del motorsport e, infatti, come abbiamo visto a inizio post, a Hollywood hanno pensato bene di scomodare, tra gli altri, Matt Damon, Christian Bale e Jon Bernthal per trasporli sul grande schermo. Dubito che, nel 2060, si farà un film sulla Toyota che vince la LM in solitaria o su Ferrari e Mercedes che, in F1, studiano come non usurare troppo la MGU-K perché se ne possono usare solo 2 in 21 gare. O tempora, o mores.