Formula 1 2023 – cos’è successo, cosa aspettarsi

Ci eravamo lasciati con questo post in cui si provava a fare il punto in vista della stagione 2022, che si presentava come rivoluzionaria soprattutto per via delle radicali riforme al regolamento tecnico. Le prime gare del campionato, effettivamente, avevano rappresentato una decisa rottura rispetto al passato. La Mercedes, dominatrice assoluta dal 2014 al 2020 e a una controversa safety car dal fare doppietta anche nel 2021, aveva perso tantissima competitività, così come quelle vetture che condividevano il suo propulsore. Al contrario, le vetture motorizzate Ferrari ne avevano guadagnata tantissima, compresa ovviamente la casa madre. In particolare, l’inizio di Charles Leclerc era stato a dir poco scoppiettante: due vittorie e un secondo posto nelle prime 3 gare, tutte impreziosite dal punto addizionale concesso a chi fa registrare il giro più veloce in gara, e un +46 in classifica sull’annaspante Max Verstappen, tradito per due volte dalle nuove power unit prodotte in house dalla Red Bull, pur con abbondante supporto fornito da Honda. Da lì in poi è iniziato un periodo che a Maranello si definirebbe “tribolato”. A Imola, Leclerc è andato in testacoda alla variante alta nel tentativo di sorpassare Sergio Pérez, finendo sesto. A Barcellona, con il monegasco in controllo della gara, la sua Ferrari ha rotto il turbo ed è stato costretto al ritiro, mentre Verstappen lo ha sorpassato in classifica Piloti. A Montecarlo è arrivata la prima cialtronata dal muretto, con il famoso “box, box… stay out, stay out!” che è costato alla Rossa una probabilissima doppietta e ha generato la pacata reazione di Leclerc:

A Baku, altra rottura per Leclerc, mentre a Silverstone Carlos Sainz jr. ha vinto la sua prima gara in carriera, non senza polemiche. Il muretto Ferrari, infatti, prima aveva lasciato che i due piloti si dessero liberamente battaglia in pista, rischiando un doppio incidente e incrementando l’usura degli pneumatici, poi, all’arrivo della safety car, avevano lasciato Leclerc in pista mentre quasi tutti gli altri piloti si stavano fermando per cambiare le gomme. Di conseguenza, alla ripresa della gara, si è ritrovato con gomme medie usurate e, ovviamente, è stato passato come un trasporto eccezionale in autostrada sia da Pérez che da Lewis Hamilton (su morbide fresche), riuscendo miracolosamente a tenersi dietro Fernando Alonso. Tutto questo in una gara dove Verstappen era arrivato settimo a causa di un’uscita di pista che gli aveva rovinato il fondo scocca. L’ultimo acuto è arrivato a Spielberg, dove il monegasco ha dominato la gara, mentre dal Paul Ricard in poi (dove Leclerc era andato a muro mentre era in controllo assoluto della gara, con un errore anche peggiore del famigerato dritto di Sebastian Vettel a Hockenheim nel 2018, perché almeno in quell’occasione c’era l’attenuante della pioggia) la Ferrari avrà un netto calo di competitività. Al contrario, Verstappen galopperà agevolmente verso il suo secondo titolo consecutivo con 9 vittorie nelle ultime 11 gare.

A cosa attribuire questo repentino calo di prestazione? Ci sono due ipotesi, non mutualmente esclusive. La prima, sostenuta dall’ex (ci arriveremo) team principal (TP) Mattia Binotto, è che, dal GP francese in poi, la Ferrari ha deciso di non sviluppare più la vettura, vuoi per ragioni di budget cap, vuoi perché è intervenuta la famigerata TD39 che ha reso più complicato per i maranellesi trovare sviluppi efficaci. Ma cos’è questa TD39, che è anche la seconda delle ipotesi precedentemente menzionate? È una direttiva tecnica con cui la FIA ha voluto da un lato provare a limitare il fenomeno del porpoising e dall’altro eliminare una “zona grigia” del regolamento relativa al fondo scocca e sfruttata da più o meno tutte le auto. Per quanto Binotto continui a sostenere che la TD39 non abbia influito in maniera significativa sulle prestazioni della Ferrari, c’è sicuramente una correlazione (che, come sa chiunque abbia studiato un po’ di statistica, non implica necessariamente causalità, questo lo specifico anche per quando affrontate discussioni politiche) tra i due eventi, anche perché la Ferrari era una delle scuderie che prendeva la maggior parte del carico aerodinamico dall’effetto suolo. Lo dimostra il grafico sopra e lo dimostra il fatto che, ignorando le sprint race e i GP in cui ci sono stati ritiri (per eliminare outlier che, con un set di dati così ridotto, avrebbero un impatto significativo), la Ferrari è passata da una media di 34,5 punti per gara a 25, un calo del 28%. La cosa genera qualche sospetto, visto che la più grande sostenitrice della TD39 è stata la Mercedes che, come scritto a inizio articolo, ha avuto un inizio campionato piuttosto difficile e, nei test pre-stagione, era sembrata quella più in difficoltà nel gestire il porpoising. Era strano vedere il Behemoth delle ultime 8 stagioni ridotto al celebre meme Swole Doge vs Cheems, eppure prima del Paul Ricard la scuderia di Stoccarda/Brackley non era mai andata oltre il terzo posto. Dopo, non solo la media punti si è impennata da 21,5 a 29,5 (un aumento di più del 37%), ma sono arrivati anche 6 secondi posti e addirittura una doppietta, con la prima vittoria in carriera per George Russell. Sempre a proposito di correlazione-ma-non-necessariamente-causalità, sarà probabilmente rimasto impresso nella memoria di molti la scenata scena di Hamilton che, dopo aver ripetuto più volte “my back is killing me” durante i team radio, a fine gara viene aiutato da un membro della squadra a uscire dall’auto.

Foto presa da qua

Insomma, quella che doveva essere la stagione del riscatto della Ferrari, per preparare la quale sono state de facto tankate le due stagioni precedenti, si è rivelata una mezza delusione, soprattutto visto l’enorme potenziale che la macchina aveva dimostrato di avere nelle prime gare. Le ragioni sono molteplici: della TD39 e del mancato sviluppo nella seconda metà della stagione (con quest’ultima che si sta rivelando una costante nei campionati iniziati bene, si vedano 2017 e 2018) abbiamo già parlato. Ci sono stati un paio di errori ed errorini di Leclerc, più un errorone, quello in Francia. Ci sono state una serie di cialtronate veramente clamorose ai box. Le sopracitate Montecarlo e Silverstone, ovviamente, ma anche Budapest: tutti episodi degni di una walk of atonement da tenersi a Maranello tra la rotonda del cavallino e l’ingresso della fabbrica su via Giardini. Ho usato la parola “episodi” ma forse non è quella corretta. Un episodio, per definizione, è qualcosa di, appunto, episodico, un accadimento isolato che non costituisce la norma. Alla Ferrari, invece, è successo troppe volte di sbagliare strategia per poter parlare di “episodi”. È evidente che c’era qualcosa che non funzionasse a livello sistemico, quindi a Maranello (o altrove? Qualcuno ha capito chi comanda in Ferrari? John Elkann? Benedetto Vigna? Non li si vedono mai ai box!) si è deciso, in maniera quasi calcistica, che il pesce puzza sempre dalla testa e si è accompagnato alla porta Binotto, diventato suo malgrado il simbolo del declino ferrarista.

Tracciare un bilancio e dare un giudizio sull’ingegnere reggiano/svizzero è complesso. Binotto lascia la Ferrari dopo 27 anni, 25 dei quali passati in F1, passando per i Mondiali di Jean Todt, Michael Schumacher e Kimi Raikkonen e le delusioni delle coppie Stefano Domenicali/Alonso e Maurizio Arrivabene/Vettel. Durante questo ultimo periodo, Binotto diventa direttore tecnico (DT) della Scuderia, ma con il manager bresciano ex Philip Morris (e, recentemente, pure ex Juventus) non c’è armonia. Come lascito prima della sua morte, Sergio Marchionne lo “promuove” a TP senza però designare un suo successore come capo dell’area tecnica; Binotto si trova così a ricoprire un inusuale doppio ruolo. Qui sta, a mio avviso, l’Errore con la E maiuscola (non il primo dell’era Marchionne, la cui gestione della Scuderia è stata, a mio avviso, molto peggiore di come viene dipinta dai media), l’Unico Anello delle boiate che non ti dà nemmeno il potere dell’invisibilità (anzi!). Binotto, nel suo quarto di secolo come figura tecnica, ha avuto una carriera più che positiva, passando, appunto, da semplice ingegnere motorista a DT. Sotto la sua guida, sono state prodotte la SF70H e la SF71H, le due Ferrari che più sono andate vicine a interrompere l’egemonia Mercedes nell’era turbo-ibrida. In entrambi i casi (anche se, rispetto al 2022, a stagione più inoltrata), il sogno si è infranto per degli sviluppi non efficaci o non pervenuti e anche qua c’è lo zampino di Marchionne, che ha spedito l’ottimo Simone Resta, allora capo progettista, in Alfa Romeo per cercare di dare competitività (e, soprattutto, visibilità) a un marchio che il defunto manager ha sempre dimostrato di avere molto a cuore (anche più della Ferrari, a conti fatti). Insomma, come figura tecnica Binotto ha dimostrato di essere una risorsa piuttosto valida: i problemi nascono con la sua “promozione” a TP, posizione a cui peraltro il diretto interessato ha sempre ambito. Anzitutto, questa figura sembra essere più adatta a un backgroud di tipo imprenditoriale/manageriale. Cosa hanno in comune il già citato Todt, Ron Dennis, Frank Williams, Flavio Briatore, Chris Horner e Toto Wolff? L’essersi spartiti tutti i Mondiali di F1 dal 1984 a oggi (tranne un’edizione) e avere tutti un profilo più dirigenziale che ingegneristico. L’unica eccezione è rappresentata da Ross Brawn e dalla sua omonima scuderia, ma, come sicuramente ricorderete, si trattò di un Mondiale molto particolare. Tornando a Binotto, il problema maggiore, come scritto, è stato l’essersi tenuto anche il ruolo di DT: non è umanamente possibile, soprattutto nella F1 odierna, mantenere i due ruoli principali all’interno della scuderia e svolgerli entrambi al meglio delle proprie possibilità. È come se il capo del Governo di un’importante nazione detenesse anche (in maniera permanente, non ad interim) un ministero chiave come l’Economia, gli Interni o gli Esteri o, per fare un esempio molto più pop, se Amadeus a Sanremo dirigesse pure l’orchestra. Questa decisione è comunque in linea con il personaggio, dalle tendenze accentratrici e forse un po’ megalomani, tant’è che a Maranello erano in tanti a chiamarlo “il Faraone” pur avendo poche affinità e parecchie divergenze sia con Tutankhamon che con Stephan El Shaarawy. Anche lo spedire Resta in Svizzera si dice fosse stata una decisione caldeggiata da lui, ben contento di levarsi di torno una figura “ingombrante” come la sua. Forse è vero, come scrive Leo Turrini, che i 4 anni concessi a Binotto sono stati troppo pochi, che in fondo Todt ce ne ha messi 6 (di cui 4 con un fenomeno come Schumacher) per vincere e anche Horner ne ha visti passare 8 tra l’ultimo di Vettel e il primo di Verstappen. Tra l’altro, prendendo in considerazione solo quel periodo, la Red Bull ha fatto quasi 200 punti in meno della Ferrari (l’equivalente di 8 vittorie) e non è mai arrivata tanto vicina alla Mercedes quanto la Rossa lo è stata nel 2017/18. Eppure, una persona nata il giorno in cui il marito di Geri Halliwell è stato nominato TP dei “bibitari” (cit. sempre di Turrini) oggi sarebbe maggiorenne.

Intermezzo musicale perché l’abbiamo citata e per accontentare la quota LGBT+, che se posto quello di Mi chico Latino faccio la combo “oggettificazione del corpo femminile” + “linguaggio non inclusivo, si dice Latinx”. Ma andate tutti affbene, riprendiamo con l’articolo

Detto questo, è un fatto che nessun’altra squadra, in tempi recenti, abbia commesso errori nella strategia di gara così frequenti e così madornali come la Ferrari post-Todt. È evidente che qualcosa non andasse e che (neanche) Binotto sia riuscito a cambiare le cose. Ci sono poi i problemi legati al motore, cosa che un po’ stride con la formazione da motorista di Binotto: quello (presumibilmente) illegale del 2019, il successivo tanking (presumibilmente) imposto dalla FIA, la scarsa affidabilità dell’ultimo. Quest’ultimo fattore ha contribuito a far sì che 12 pole position (più della metà delle gare del 2022 è partita con una Ferrari davanti a tutti) si concretizzassero in sole 4 vittorie. L’ultima volta che una Rossa è stata così forte in qualifica erano i tempi della mitica F2004, una delle monoposto più dominanti di sempre, con 11 pole su 17 gare che, però, allora fruttarono 15 vittorie (bei tempi!). C’è poi la questione “politica”, con Binotto che ha parlato tanto ma non è riuscito a portare a casa niente: la TD39 è passata, la Red Bull Powertrains è stata considerata “nuovo motorista” dalla FIA (nonostante il motore 2022 fosse formalmente proprietà intellettuale della Honda) con tanto di deroghe a essa concesse, la sanzione ai “bibitari” per lo sforamento del budget cap è stata ridicola ecc… Infine, c’è la questione Leclerc. Il rapporto tra i due sembrava essere nato sotto un’ottima stella, con Binotto che, al primo anno di entrambi, si era rimangiato la parola su Vettel prima guida e aveva sviluppato le monoposto successive sullo stile di guida del monegasco. Poi, quest’anno, le frequenti liti via team radio e la tendenza a trattare Sainz alla pari anche quando la classifica suggeriva altro, il tutto culminato nel famoso siparietto di Silverstone.

Anche qua: ma possibile che dopo 4-stagioni-4 di Drive to Survive non abbia pensato che fosse meglio avere questo confronto al riparo da sguardi indiscreti?

Colpevole o capro espiatorio che sia, in Ferrari è finita l’era-Binotto ed è iniziata quella di Frédéric Vasseur. Background tecnico anche per lui (laureato in ingegneria), è in F1 dal 2016, quando è diventato TP della Renault per poi dimettersi a fine stagione per dissidi con la casa madre. Da metà 2017 fino all’anno scorso è stato TP e amministratore delegato della Sauber/Alfa Romeo, dove il massimo risultato in gara è stato un 4°/5° posto ottenuto a Interlagos nel 2019 e in classifica Costruttori il 6° dell’anno scorso. Non proprio un pedigree da vincente come quello di Todt (a cui spesso viene paragonato, probabilmente per ragioni di passaporto e scaramanzia), che prima di trasferirsi a Maranello aveva vinto 4 Mondiali Rally e due 24 ore di Le Mans con la Peugeot. Ha però un ottimo rapporto con Leclerc, che ha avuto all’Alfa nell’anno del suo esordio e, a proposito di Todt, con il figlio Nicolas, una specie di Mino Raiola della F1 che nella sua “scuderia” annovera anche il monegasco. Si dice che abbia portato lui Felipe Massa in Ferrari nel 2006 (anche lui dalla Sauber, peraltro) e che sul cambio Binotto/Vasseur non sia stato del tutto ininfluente. Si dice. Servirà tempo per valutare l’operato di Vasseur in Ferrari, ma sarebbe già ora che si sbrigasse per individuare un nuovo DT, perché attualmente questa posizione è ricoperta da un “pentavirato” composto dai capi delle rispettive aree tecniche (telaio, motore, design, chassis, produzione). Questa figura sarà fondamentale da subito perché, se è vero che la SF23 è inevitabilmente “figlia” di Binotto, è troppo tempo che la Ferrari non sviluppa adeguatamente la sua monoposto nel corso della stagione e questo compito spetta principalmente al DT. Mentre scrivo questo post, è la vigilia delle prove libere del primo GP della stagione e questa posizione è ancora vacante: male. Sembra, però, che sia in corso una graduale riorganizzazione delle competenze tra Vasseur e Laurent Mekies, racing director e vice-TP della Ferrari: anch’esso francese, anch’esso ingegnere, anch’esso laureatosi presso la stessa alma mater di Vasseur, nel 2018 ha lasciato la FIA (dove, tra le tante cose, ha introdotto l’Halo) per approdare a Maranello. Mekies starebbe quindi agendo da DT de facto, con tutte le responsabilità politico-economiche lasciate a Vasseur e con l’altro francese a capo dell’area tecnica. Sarebbe sua, infatti, la recente mossa, invocata a gran voce dai tifosi, di silurare affidare altre mansioni al disastroso Ignacio “Iñaki” Rueda, dal 2015 capo delle strategie in Ferrari e che ora si occuperà di tutt’altro, tant’è che non seguirà nemmeno più la squadra nei GP. Al suo posto è stato promosso il suo (ex) vice, Ravin Jain, un fisico specializzato nell’analisi dei dati. Vedremo se ci sarà una vera discontinuità, anche perché, poco prima del suo siluramento, Arrivabene espresse un concetto che è la parafrasi del modenese “ag vol dal vader“. Tradotto: oltre agli imprescindibili algoritmi, ci vorrebbe qualcuno con sufficiente esperienza di pista da avere sia la capacità di capire quando sono in gioco delle variabili (sia tecniche che umane) non prese in considerazione dal software, che il coraggio/autorità di prendersi la responsabilità dell’eventuale decisione di contraddire o modificare il responso informatico.

Per il resto, cos’è successo? Pochino, in linea di massima. Nella griglia 2023 non ci saranno più i piloti della Red Bull 2014, ovvero Vettel e Daniel Ricciardo. Il primo si è ritirato a 35 anni e in fase calante già da un po’, nessuna sorpresa a riguardo: mancherà umanamente e lascia in molti (soprattutto nei ferraristi) il rimpianto che almeno a quota Juan Manuel Fangio (5 Mondiali) sarebbe potuto arrivare. Rispetto a Vettel, Ricciardo ha 2 anni e, soprattutto, 45 vittore e 4 Mondiali in meno. Nel 2014, al primo anno in Red Bull, gli era stato riservato il trattamento goduto da Seb nel 2010, quando il giovane pilota emergente aveva iniziato a godere di favoritismi più o meno palesi all’interno della scuderia. In quel periodo, sembrava destinato a un grande futuro, ma, nel 2017, si è ritrovato dall’altra parte della barricata, quando l’esplosione del talento di Verstappen aveva nuovamente cambiato gli equilibri (altro che Bonucci!). Nel 2019, quindi, aveva deciso di mollare la Red Bull per la Renault: a un deludente 9° posto aveva fatto seguito un incoraggiante 6° nel 2020, impreziosito da due podi. A quel punto, però, Ricciardo aveva smesso di credere nel progetto francese e si era lasciato sedurre dalla McLaren. Nel 2021 era arrivata l’ultima vittoria in carriera, a Monza, complice il controverso incidente tra Hamilton e Verstappen mentre occupavano le prime due posizioni, ma in quella stagione, così come nella successiva, sarebbe arrivato dietro al compagno di squadra Lando Norris, di 10 anni più giovane e molto meno lautamente stipendiato. Per il 2023, quindi, decide di tornare alla Red Bull in qualità di pilota di riserva. Dato il promettente inizio, ci si aspettava sicuramente che vincesse più di 8 gare in carriera (di cui una sola nelle ultime 4 stagioni), ma fuori dall’abitacolo si è fatto amare molto grazie a una simpatia e una genuinità non comuni nel circus.

Il posto di Vettel in Aston Martin è stato preso da Alonso, che finalmente si è liberato della convivenza forzata con Esteban Ocon (che ha smesso di seguire su Instagram subito dopo il suo ultimo giorno in Alpine), mentre quello che fu di Ricciardo in McLaren verrà occupato dall’esordiente Oscar Piastri. Anche lui australiano di origini italiane, ex membro della racing academy della Renault, ha vinto il Mondiale di F3 nel 2020 e quello di F2 l’anno successivo. Si dice un gran bene di lui, anche se finora si è fatto notare soprattutto per una controversia legata proprio al suo ruolo nella stagione che sta per iniziare. A giugno dell’anno scorso, infatti, sembrava certo che dovesse essere “prestato” dalla Alpine alla Williams, ma, dopo l’addio di Alonso, la scuderia francese annunciò ufficialmente che l’italo-australiano avrebbe preso il suo posto. Piastri smentì subito l’annuncio via Twitter, dicendo che non aveva firmato nulla e che non avrebbe corso per loro nel 2023. Il TP della Alpine, Otmar Szafnauer, lo criticò duramente, dicendo che si sarebbe aspettato “più lealtà” e mettendo in dubbio “la sua integrità come essere umano”. La faccenda prese vie legali, che però diedero ragione a Piastri. Il ragazzo ha le stimmate del fenomeno, ma è fermo da un anno e, a causa del pasticcio di cui sopra, l’Alpine lo ha estromesso da tutte le sessioni al simulatore: è probabile che questa sarà una stagione di transizione per lui, visto che, oltre a riprendere a correre, dovrà adattarsi a una vettura dal comportamento molto meno permissivo rispetto alla F2. Ma quindi chi sarà il sostituto di Alonso in Alpine? Pierre Gasly, altro pilota dal grande talento, capace di emulare Vettel vincendo con una Alpha Tauri a Monza nel 2020, il quale si è stufato di aspettare la sua occasione in Red Bull e ha accettato la corte dei suoi connazionali. Pronti, via, ha subito dichiarato che lui e Ocon non saranno mai amici, mentre il normanno ha ribadito che, da quando corre, ha sempre considerato il compagno di squadra come il primo rivale: auguroni! Nel junior team della Red Bull, al posto di Gasly, è stato invece ingaggiato Nyck De Vries, olandese formatosi nella racing academy della Mercedes. L’anno scorso ha stupito tutti quando, sostituendo Alexander Albon in Williams in occasione del GP di Monza, è andato a punti (9°) nella sua gara d’esordio, venendo pure premiato come Pilota del giorno. Il thailandese è stato confermato a Grove ma al suo fianco non ci sarà più il disastroso Nicolas Latifi, bensì l’esordiente Logan Sargeant. 22enne nativo della Florida, nipote di un magnate petrolifero (e grande finanziatore del partito Repubblicano), è reduce da un 4° posto nel Mondiale F2 (2 vittorie) dove ha vinto il premio di rookie of the year. Onestamente, sembra uno dei tanti piloti paganti più che un potenziale fenomeno, oltre che una sorta di token. Grazie soprattutto a Drive to Survive, infatti, la F1 è diventata molto popolare anche negli USA, tant’è che quest’anno si correrà da loro per ben 3 volte (Miami, Austin, Las Vegas), ma di piloti yankee c’era carenza da un po’. Prima di Sargeant, infatti, bisogna andare indietro fino al 2015 per trovare Alexander Rossi, che aveva corso 5 gare con la derelitta Marussia. L’ultimo americano a durare una stagione intera è stato Scott Speed nella Toro Rosso del 2006 (poi silurato dopo 10 gare l’anno successivo a favore di un giovanissimo Vettel), mentre gli unici due ad aver vinto il Mondiale sono stati Phil Hill nel 1961 (Ferrari) e il mitico Mario Andretti nel 1978 (Lotus – anche l’ultimo americano ad aver vinto una gara, sempre in quell’anno). L’ultimo cambiamento in griglia è il ritorno in pianta stabile di Nicolas “Nico” Hulkenberg. Dopo aver fatto da “pilota jolly” per 3 anni, sostituendo questo o quell’altro pilota durante la stagione, nel 2023 sarà a fianco di Kevin Magnussen in Haas. Ciò implica, ovviamente, l’addio/arrivederci di Mick Schumacher, scaricato da Guenther Steiner, con cui un gran feeling non c’è mai stato. Da un lato, il tedesco ha ottenuto meno della metà dei punti del suo (ex) compagno di squadra (25-12) e si è reso protagonista, soprattutto durante il venerdì e il sabato, di numerosi incidenti che hanno sicuramente inciso sul budget cap della Haas. Dall’altro, il danese è pur sempre un veterano con 8 stagioni e 141 gare alle spalle, mentre Schumacher era solo alla sua seconda stagione in F1. Inoltre, su 18 gare in cui entrambi i piloti sono arrivati al traguardo, le volte in cui uno è arrivato davanti all’altro sono state divise in modo perfettamente equo, quindi è difficile parlare di un vero e proprio flop per Mick. In assenza di sedili liberi, Schumacher ha concluso il suo rapporto con la Ferrari Driver Academy e si è accasato in Mercedes, dove sarà il pilota di riserva sia per la casa madre che per la McLaren.

Terminiamo il post con la risposta alla domanda del titolo: cosa aspettarsi? Rispetto al 2022 non ci saranno stravolgimenti tecnici e/o regolamentari, bensì piccole modifiche. I grandi cambiamenti ci saranno nel 2026, con la semplificazione delle power unit che ha convinto, stavolta ufficialmente, all’ingresso/ritorno in F1 di due giganti come Audi e Ford. La casa dei quattro cerchi ha acquisito una quota di minoranza in Sauber con l’obiettivo di farla diventare il suo factory team nel 2026, dove, appunto, anche le power unit verranno prodotte a Ingolstadt. Si vocifera che il futuro management sia già in contatto con Binotto. Inoltre, la partnership con l’Alfa Romeo non verrà rinnovata dal 2024 in poi, sancendo così il nuovo addio della casa di Brera alla F1, cosa che a Stellantis non pare interessare granché. Per quanto riguarda Detroit, invece, dal 2026 forniranno i motori alla Red Bull. Si tratta di una notizia di un certo peso, visto che la Ford è il terzo motorista più vincente di sempre in F1 con 10 Mondiali Costruttori (i primi due sono Ferrari con 16 e Renault con 12 – anche Mercedes è a quota 10) vinti tra il 1968 e il 1994 e suddivisi tra Lotus, Matra, Tyrrell, McLaren, Williams, Brabham e Benetton. L’esperienza della Red Bull Powertrains finirà dunque dopo soli 4 anni, ma, com’è stato per la Honda pre-2021, le vittorie del passato non sono necessariamente una garanzia per il futuro. Sarà bello, però, vedere di nuovo Ford e Ferrari battagliarsi in pista.

Un po’ romanzato ma fortemente consigliato

Tornando al 2023, i rapporti di forza non dovrebbero cambiare significativamente dalla scorsa stagione. La Red Bull sembra ancora la squadra da battere, complici anche gli esiti dei test pre-stagionali in Bahrain: sappiamo bene come le squadre a volte si “nascondano” durante queste sessioni, ma gli austro-inglesi sono sembrati veramente competitivi, sia in termini di giro secco che di passo gara. La Ferrari, invece, pur avendo fatto registrare tempi interessanti, sembra soffrire ancora di un degrado gomme maggiore dei rivali, tara che si porta dietro dall’anno scorso: come scritto, però, i nodi cruciali saranno l’affidabilità del motore e gli sviluppi durante la stagione. La Mercedes è difficile che sbagli macchina due anni di fila e l’anno scorso ha chiuso in un notevole crescendo. Inoltre, ci sarà Hamilton con il dente più che avvelenato: dopo la beffa del 2021, l’anno scorso ha chiuso la sua prima stagione di sempre in F1 senza almeno una vittoria e la prima in assoluto addirittura da quando correva in Formula Renault nel lontano 2001. L’unica vittoria della Mercedes, come abbiamo visto, è infatti andata a Russell, che ha 13 anni meno di lui, che ha conquistato 35 punti in più di lui e che in gara gli è finito davanti la maggioranza delle volte. Sempre con la premessa di prendere queste informazioni con le pinze, ai test in Bahrain sono sembrati un po’ più indietro delle altre due, specialmente per quanto riguarda la velocità di punta, vedremo in gara. Per quanto riguarda gli altri team, i suddetti test hanno palesato una McLaren in grave difficoltà e un’Aston Martin che pare invece molto più competitiva, tant’è che il solitamente prudente Alonso si è detto sicuro di poter lottare per il podio già dal Bahrain. Venerdì si ricomincia. Ogni maledetta domenica. Su due. Di solito. E ogni tanto anche il sabato, visto che quest’anno ci saranno ben 6 sprint race.

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